Mettere la sinistra a confronto, partendo dal “che fare” e ponendosi nello stesso tempo l’obiettivo di come dotarla di un assetto unitario: siamo giunti ad un passaggio in un certo senso epocale e ne siamo tutti consapevoli. Lo è Bertinotti, che per primo ha evidenziato la necessità di “ricostruire una cultura politica di sinistra” per combattere la deriva antipolitica; lo è Fabio Mussi, che ha già sbarrato la strada che conduce al Partito Democratico; lo è Oliviero Diliberto, che propone dal congresso Pdci di Bellaria datato 2001 (e fino a ieri inascoltato) una confederazione della sinistra per offrire un “luogo” al dialogo. Finalmente la dialettica prende corpo e sostanza e iniziamo ad intrecciare contenuti ed eventuali forme organizzative di supporto.
Si parte da un’analisi che accomuna probabilmente tutti noi. E’ evidente la crisi della rappresentanza (nel rapporto tra elettori ed eletti ma non soltanto), che si serve anche di quell’imbarbarimento figlio della globalizzazione selvaggia, di un’epocale sconfitta del movimento operaio – è ancora impressa nella memoria la data simbolo dell’autunno 1980 – nella crisi delle istituzioni e nella conseguente difficoltà di intercettare i bisogni espressi dai cittadini-lavoratori.
Impossibile e ingiusto chiamarsi fuori. Ma vado oltre: l’antipolitica fa da contraltare a chi opera nelle istituzioni e si dà il caso che pressoché tutte le forze della sinistra – dai “moderati” ai “radicali” – siano ben radicate nel “palazzo” con Ds e Prc che esprimono direttamente ministri e sottosegretari. Rimanendo per un attimo al fronte moderato della coalizione, va detto con chiarezza che la nascita del Partito Democratico è la degna chiosa di un lungo viaggio iniziato alla Bolognina nel lontano 1989 e che – dopo aver lasciato sul campo migliaia e migliaia di vittime politiche più o meno illustri – cancella anche terminologicamente ogni traccia di sinistra. Il “pds” diventerà “pd” con buona pace di chi ha conosciuto (e magari criticato) un partito che si è sempre comunque cimentato con il lavoro, con i salari, con le condizioni materiali di vita delle persone in carne ed ossa.
Ha ragione Crucianelli, che su Aprile ha sostenuto che “privare il nostro paese di un grande partito di sinistra può creare un grande vuoto sentimentale, politico e materiale in milioni di persone”. E’ proprio così: quella scelta ci ha messo di fronte ad una rottura operata dal gruppo dirigente diellino anche nei confronti della Costituzione italiana. Abiurare la parola “sinistra” non significa forse fondare un nuovo patto politico rinunciando sia all’articolo 1 (“…Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) sia all’articolo 3 (“…compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che…impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) della Carta?
Detto questo, occorre fare innanzitutto i conti con il malessere di chi fino a ieri ha dato il suo voto al principale partito della sinistra italiana: tanti elettori di sinistra fanno fatica a capire di che cosa si stia discutendo nel principale partito della coalizione, ed è difficile dare loro torto. Ma sbaglierebbe chi, fregandosi le mani in seguito alla nascita del Partito Democratico, pensasse di arraffare qualche consenso senza porsi il nodo cruciale della questione della rappresentanza e, più in generale, della democrazia in questo Paese. La nascita del Pd è una piccola tragedia e induce tutta la sinistra a fare i conti con se stessa ridando senso a parole che hanno perso smalto, dal “lavoro”, ai “diritti” fino alle “condizioni materiali” nel loro complesso.
Ovviamente, a sinistra si è già aperta una dialettica sull’egemonia. Bertinotti, ad esempio, ha più volte avuto modo di definire prevalente il profilo della “sinistra radicale rifondata in rapporto ai movimenti di questo secolo” ritenendo residuale il contributo di quella troppo “ortodossa” perché – sostiene – ostinatamente contrapposta a socialdemocrazie che non esistono più. Credo al contrario che l’ipotesi di cavalcare i movimenti in un “grande Prc” – pretenzioso collante utile a reinterpretare la categoria della sinistra nel ventesimo secolo – si sia rivelata inadeguata. E penso inoltre che il presidente della Camera ne sia perfettamente consapevole, tanto è vero che ha colto l’occasione dell’abbraccio mortale di Casini durante la crisi per rinvigorire il dialogo unitario. Rimango altresì convinto che la sinistra sia una sola, e che sia giunto il momento di percorrere la strada unitaria a partire da un nodo cruciale: mi riferisco al tema del lavoro, dei diritti e della condizione materiale delle persone in carne ed ossa. Ha ragione chi sostiene esista un’autostrada per la sinistra che non abdica al suo compito storico: è l’autostrada della rappresentanza politica e sociale dei salariati vecchi e nuovi, degli operai, degli impiegati, dei pensionati e delle centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto sulla pelle le conseguenze devastanti della legge 30 voluta da Berlusconi e Maroni.
Il cantiere, in realtà, è già partito, dal momento che recentemente abbiamo presentato nei due rami del Parlamento una proposta di legge per iniziativa dei gruppi parlamentari di Pdci, Rifondazione, Verdi e sottoscritta da oltre cento deputati e senatori tra cui molti esponenti dei Ds. Fin dal titolo, il pdl fissa l’esigenza di approvare “norme per il superamento del lavoro precario”. Ora si tratta di dare concreto seguito agli auspici intensificando le occasioni di confronto, fino a porsi l’obiettivo ragionevole di dare risposte compiute all’elettorato che non ha abiurato parole d’ordine e contenuti propri della sinistra. Cinicamente si potrebbe aggiungere che la morsa operata da un lato dall’Udc e dall’altro dai moderati ulivisti al fine di “tagliare le ali” – utilizzando strumentalmente la crisi del governo Prodi sull’Afghanistan – può rappresentare un’occasione per tutta la sinistra. Noi dobbiamo dare risposte al disagio della nostra gente, dobbiamo raccogliere la preoccupazione di chi non arriva alla famosa “quarta settimana”, di chi ha un figlio precario piuttosto che un padre espulso precocemente dal processo produttivo, di chi teme di non arrivare alla pensione o che già la percepisce ma non basta per campare. Stiamo parlando di milioni di persone, di tutti coloro che a diverso titolo si sentono esclusi dal “pensiero unico”.
Guai a noi se pretenderemo di costruire un percorso epocale utilizzando scorciatoie di comodo. Ognuno è comprensibilmente geloso della propria identità e non bisognerà vivere lo “scontro unitario” con timori, bensì con reciproca fiducia. Anche in questa fase il famoso dito indica la luna e non dobbiamo distogliere lo sguardo dal nostro vero obiettivo.
*Deputato Pdci, Presidente della commissione Lavoro della Camera