Il dio Pil ha fallito

Perché i potentati politico-economici mondiali e nazionali, oggi simbolicamente riuniti dalla sigla G-8 (7), si accaniscono nel perseguire politiche che hanno dato risultati negativi anche rispetto ai loro termini di riferimento? Secondo le credenze dell’economia un elemento come il Pil (prodotto interno lordo) – la cui consistenza è molto approssimativa e priva di significati qualitativi – costituisce l’asse portante del sistema. Le privatizzazioni, il rigore monetario e fiscale antinflazionistico dovrebbero creare un clima favorevole per gli investimenti e quindi per la dinamica del Pil, con effetti positivi sull’occupazione, sull’ambiente, su tutto.
Intorno a questa credenza si è avuto un vero e proprio tourbillon di relazioni contabili considerate come scientificamente esatte. Un bilancio attivo, ad esempio, aiuta il risparmio privato e quindi gli investimenti, ciò stimola la crescita del beneamato Pil e della produttività, con effetti positivi sulla competitività internazionale del paese. Il tutto avviene con saggi di interesse sostenibili, visto che l’attivo nel bilancio pubblico riduce il bisogno di finanziamento dello stato. Tutte queste belle cose succedevano in Asia, che veniva vista come solidissima proprio mentre piombava nella crisi.
Che non è finita: il Giappone persiste nella sua discesa deflazionista sia nel campo borsistico che in quello produttivo; fallimenti e instabilità finanziaria continuano a caratterizzare la situazione nella Corea del sud, mentre Taiwan e Singapore – che tre anni fa avevano tenuto – sono pienamente investite dalla crisi della new economy. E’ successo però che quell’area, a suo tempo elevata a modello di sviluppo, non viene più trattata come appartenente al capitalismo, bensì come una zona opaca in cui le perdite non sono di natura capitalistica ma burocratico-intrallazzatoria. E’ assai probabile che rimozioni di questo genere verranno presto applicate nei confronti di paesi latino-americani come Argentina, Brasile e Bolivia.
Argentina e Brasile vennero encomiati per i piani monetari che saldavano le loro monete al dollaro. Debellando l’iperinflazione, sostenevano Fondo e Banca, sarebbe tornata la fiducia e con essa i capitali e gli investimenti, come se gli uni implicassero automaticamente gli altri. Dal punto di vista capitalistico le cose sono andate diversamente. Certo, la grande svalutazione del real tre anni fa comportò un lauto premio ai profitti speculativi. Brasilia, in perfetto accordo con il Fmi, sostenne il tasso di cambio per un periodo abbastanza lungo da permettere il trasferimento dei capitali all’estero. Svalutato il real, i capitali rientrarono per far man bassa dei beni svalutati, mentre la macroeconomia, cioè la popolazione, brasiliana veniva obbligata ad assumersi l’onere del debito contratto con il famigerato Fondo. Malgrado questi regali il Brasile non è attualmente un paese capitalisticamente salubre. E le vicende dell’Argentina sono su tutti i giornali.
Quanto illustrato corrisponde al calcolo dell’andamento del Pil effettuato sui 176 paesi recensiti dal Fondo monetario (“The Emperor Has No Growth: Declining Economic Growth Rates in the Era of Globalization”, di Mark Weisbrot, Robert Naiman e Joyce Kim, Center for Economic Policy Research, Ottobre 2000). Per l’insieme dei suddetti 176 paesi il Pil procapite è aumentato del 33% nel periodo ‘liberista’ 1980-’99 contro l’83% del periodo ‘dirigista’ 1960-’79. Per ciò che riguarda i paesi della periferia, nel periodo ‘liberista’ l’andamento del Pil procapite è stato negativo per l’Africa subsahariana e per i paesi arabi, mentre era positivo per ambedue le zone nel ventennio 1960-’79. In America latina il Pil per abitante è cresciuto del 75% nel primo ventennio e appena del 6% nell’ultimo. Solo l’Asia orientale, la cui popolazione è per oltre l’80% concentrata in Cina, ha esibito una crescita molte volte superiore a quella del primo ventennio. Così la dinamica dell’idolatrato Pil è in controcorrente rispetto al rallentamento generale proprio nel paese che applica le regole molto a modo suo. Contrariamente alle fandonie vendute da personaggi come Ruggiero.
Benché privo di serie dimensioni qualitative il concetto di Pil – e soprattutto di Pil procapite – è importante per il capitalismo in quanto esprime confusamente la dinamica del reddito su cui si potrebbero realizzare dei profitti. La stagnazione del Pil capitalistico innesca invece un meccanismo in cui i profitti vengono ricercati nella circolazione finanziaria e nella rivalutazione degli attivi finanziari. Questo è il vero senso della privatizzazione globale. Tuttavia tali processi non rilanciano la dinamica del Pil capitalistico, anzi la indeboliscono ulteriormente perché comprimono la domanda globale. Nei centri motori del capitalismo cresce pertanto l’urgenza di accaparrarsi ulteriori fette di reddito corrente e di patrimoni pubblici allo scopo di trasformarli in attivi finanziari. Il processo per cui oggi in Gran Bretagna le tasse dei cittadini vengono spese dal governo per sostenere il valore delle azioni delle ferrovie privatizzate, piuttosto che in investimenti diretti in quel disastrato settore, è lo stesso di quello che ha portato alla crisi delle Aerolineas Argentinas, nel passato una delle più efficienti compagnie del continente sudamericano.
Spesso e volentieri le privatizzazioni disarticolano la funzionalità tecnica delle società. Queste ultime devono soprattutto creare rendite finanziarie invece di rinnovare, mettiamo, i binari. Da sole però non ce la fanno e lo stato deve convogliarvi parte del gettito fiscale erogato dai cittadini. La crisi dell’accumulazione reale apertasi negli anni settanta sta trasformando il capitalismo in un sistema di accumulazione per tributi. Ciò comporta un allontamento degli interessi dei potentati economici dall’accumulazione reale tipo anni sessanta. In questo senso è vero che non vi è più spazio per politiche keynesiane che ipotizzavano una compatibilità fondamentale tra piena occupazione, stato sociale e capitalismo. Inoltre, pur non innescando un meccanismo di accumulazione reale sostenuta, la deflazione permanente – connessa alla valorizzazione finanziaria – sbaraglia il lavoro dipendente, lo trasforma in una miriade di lavori in subappalto e fa balenare ai detentori di ricchezza monetaria la possibilità di eliminare definitivamente le classi sociali antagoniste riducendole a moltitudini disgregate. Mica male!