Il dibattito sulla soluzione dello Stato unico fa esplodere il mito del sionismo di sinistra

Un affascinante dibattito a proposito di una questione che fin’ora è stata tabù sale sul podio politico israeliano: La creazione di uno Stato unico come soluzione al conflitto. In un siffatto Stato, ebrei e Palestinesi potrebbero potenzialmente vivere come cittadini con pari dignità, ma la cosa più sorprendente è che questa proposta arriva principalmente dalla destra politica israeliana.

Il dibattito, che si contrappone all’attuale ortodossia dei due Stati, ha rapidamente mandato all’aria le concezioni tradizionali sul sionismo di destra e di sinistra.

La presunzione di molti osservatori, soprattutto statunitensi, è che i fautori di pace israeliani fossero esclusivamente nella sinistra sionista, ignorando la destra, poiché irrimediabilmente contraria ai diritti dei Palestinesi. Nell’ambito di tale presunzione, il presidente Barak Obama ha recentemente cercato di mettere il ministro di destra Benjamin Netanyahu su un binario morto a vantaggio sia del suo ministro della difesa, Ehud Barak, della sinistra laburista, che della dirigente dell’opposizione, Tzipi Livni del partito centrista Kadima. Ma come la destra israeliana ha fatto spesso notare, i partiti di sinistra e del centro, prétendument favorevoli alla pace, hanno occupato a lungo il potere senza ottenere altro che deplorevoli risultati a proposito della creazione di uno Stato palestinese, soprattutto durante il processo di Oslo. La popolazione delle colonie, per esempio, non è mai aumentata tanto rapidamente come nel breve periodo in cui Barak è stato primo ministro, dieci anni fa.

La novità che scaturisce dal nuovo dibattito sullo Stato unico è che alcuni membri della destra, perfino tra i coloni, si rivelano disponibili a condividere uno Stato con i Palestinesi, mentre la sinistra si ostina a combattere tale soluzione.

In un supplemento del giornale liberale israeliano Haaretz pubblicato lo scorso week-end, su questa questione, Yossi Beilin, vecchio dirigente tra le colombe del partito Meretz e uno degli architetti degli accordi di Oslo, ha dichiarato a nome della sinistra sionista che la soluzione dello Stato unico non ha senso. Ha poi aggiunto con disprezzo: “non m’interessa vivere in uno Stato che non sia uno Stato ebraico”. La sinistra israeliana si aggrappa risolutamente all’obiettivo che ha adottato da quando Barak a assistito alle infruttuose trattative di Camp David nel 200 e cioè: l’annessione della maggior parte delle colonie della Cisgiordania e di tutte quelle di Gerusalemme Est. Con il consenso della sinistra il muro della separazione – un’idea di Barak – permetterà alla quasi totalità dei 500.000 coloni di restare sul posto, a fronte di una popolazione palestinese amareggiata sarà raggruppata in una serie di ghetti indebitamente chiamati Stato palestinese. L’obiettivo di questa separazione, secondo la sinistra, è di proteggere il carattere ebraico di Israele di fronte ad una maggioranza palestinese invadente, nel caso che non si arrivi ad una spartizione del territorio.

Il problema che presenta la soluzione della sinistra è stato riassunto da Tzipi Hotoveley, giurista principale del Likud, che ha dichiarato recentemente il suo sostegno per uno Stato unico. “C’è una falsa morale (nella sinistra)… ne risulta una soluzione che perpetua il conflitto e che fa di noi, per dirla francamente, degli autori di massacri dopo essere stati degli occupanti. E’ la sinistra che ci ha reso una nazione più crudele e che mette anche in pericolo la nostra sicurezza.

La destra comincia a comprendere che la separazione presuppone non solo l’abbandono del sogno della Grande Israele, ma farà di Gaza un modello per la Cisgiordania. I Palestinesi, esclusi e assediati, dovranno essere “pacificati” a colpi di attacchi militari regolari come quello lanciato contro Gaza nell’inverno del 2008 e che ha causato ad Israele il biasimo internazionale. A destra alcuni stimano che Israele non sopravvivrà a lungo a tale oltraggio. Ma mentre la destra riconsidera le sue posizioni storiche, la sinistra continua a preconizzare come sempre una separazione etnica e l’edificazione del muro.

Sono stati gli ideologi sionisti laburisti, prima della creazione dello Stato, a perorare la segregazione sotto le bandiere della “mano d’opera ebraica” e “la redenzione della terra” e che hanno poi adottato la politica dei trasferimenti. Sono i fondatori laburisti dello Stato ebraico che hanno realizzato l’espulsione di massa dei Palestinesi sotto il cappello della guerra del 1948.

Al contrario, per la destra, la creazione di un territorio ebraico « puro » non è mai stato un principio sacro. Molto presto essa si è rassegnata a condividere la terra. Vladimir Jabotinsky, padre intellettuale del Likud, ha infatti presentato la molto fraintesa dottrina del « muro d’acciaio » come un’alternativa alle politiche di segregazione e di espulsione propugnate dai sionisti laburisti. Jabotinsky contava di vivere con i Palestinesi, ma piegandoli sotto il pugno d’acciaio. I successori di Jabotinsky si scontrano con lo stesso dilemma. La maggior parte, come Nétanyahu, credono sempre che Israele ha il tempo di estendere il controllo comprando i Palestinesi con delle briciole, riducendo, per esempio, il numero di posti di blocco o accordando loro degli incentivi economici limitati. Ma un numero crescente di dirigenti del Likud riconosce che i Palestinesi non accetteranno mai questo modello d’apartheid per sempre. In primo piano, vi è Moshe Arens, ex primo ministro della difesa e guru del Likud che ha scritto recentemente che la concessione della nazionalità ad un buon numero di Palestinesi sotto occupazione “merita di essere esaminata seriamente”. Reuven Rivlin, portavoce del Parlamento, ha concesso che ” il male minore è uno Stato unico nel quale tutti i cittadini godano degli stessi diritti”.

Noi non dovremmo idealizzare questi convertiti del Likud. Essi non parlano dello “Stato di tutti i cittadini” voluto da una piccola minoranza di ebrei non sionisti. La maggior parte esigerebbe che i Palestinesi accettino di vivere in una Stato dominato da ebrei. Arens, per esempio, vuole escludere il milione e mezzo di Palestinesi di Gaza dalla cittadinanza, al fine di mantenere artificialmente all’interno del suo Stato una maggioranza ebraica per alcuni decenni in più. Nessuno sembra ipotizzare il diritto al ritorno di milioni di rifugiati palestinesi. E quasi tutti conterebbero sul fatto che per essere cittadini bisognerebbe attestare la propria lealtà, cosa che porterebbe i nuovi cittadini palestinesi agli stessi rapporti e agli stessi problemi con lo Stato ebraico che conosce l’attuale minoranza palestinese all’interno di Israele. Tuttavia, la destra mostra che essa è forse più disponibile della sinistra sionista a ridefinire i propri paradigmi. E in fin dei conti, essa smentirà Washington rivelandosi più capace dei suoi architetti di Oslo di realizzare la pace.

* Jonathan Cook è scrittore e giornalista, con base a Nazareth, Israele. E’ membro del comitato di patrocinio del Tribunale Russell sulla Palestina del quale sono stati presentati i lavori il 4 marzo 2009.

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