La festa dell’Ernesto ha ospitato, per la seconda giornata di dibattiti, una riflessione a più voci sulla guerra infinita, il suo significato, le sue cause, le possibilità di sconfiggerla.
Si è cercato, insomma, di capire quali siano le radici di uno stato di guerra permanente che, almeno da un quindicennio, è l’elemento qualificante di questo nuovo ordine mondiale, «celebrato anche a sinistra», come ricorda Alberto Burgio nell’intervento introduttivo al dibattito, e nato dalla fine del cosiddetto “equilibrio del terrore”.
E si è cercato, conseguentemente, di abbozzare delle vie d’uscita, consapevoli che per riuscire nell’impresa è necessario innanzitutto avere la meglio rispetto a quella sensazione di totale impotenza che permea le coscienze degli individui e dei soggetti collettivi.
È Sergio Cararo a rompere il ghiaccio proponendo una cornice entro cui collocare i processi: la guerra è la conseguenza della crisi di egemonia dell’imperialismo statunitense; essa ha aperto, dopo l’11 settembre 2001, una nuova fase (la post-globalizzazione) segnata dal tentativo nord-americano di recuperare, con le armi e la repressione, il dominio economico e culturale sul mondo perduto nel corso degli anni Novanta.
Perché l’euro ha rotto il signoraggio mondiale del dollaro (emblematica è l’inaugurazione, da parte dell’Iran, di una borsa energetica che renderà possibili le transizioni in euro sul petrolio) e la Cina si propone sul mercato internazionale con tassi di crescita incredibilmente alti.
Ma anche perché il modello culturale statunitense non regge più, nel mondo islamico come in Europa ed in America Latina.
Per dirla con Cararo: «la guerra, strumento di supremazia bellicosa, aggressiva, nazionalista, rimane l’unico fattore di egemonia ancora a disposizione degli USA nel mondo».
A questo quadro Gianni Minà aggiunge un secondo elemento di analisi: la questione, centrale e definitivamente complessa, del controllo delle risorse. Citando il prete belga François Houtard, afferma che «la ragione per cui gli Stati Uniti scelgono la guerra è il controllo delle risorse e del petrolio. Domani potrebbe toccare all’Amazzonia per il controllo dell’acqua.»
Condivide Don Giulio Albanese, il quale parla dell’Africa e delle sue miniere a cielo aperto, del rutilio nell’ex Zaire e del petrolio in Sudan, che «scatenano gli appetiti dell’amministrazione Bush» a tal punto che, secondo il parere della Commissione per l’Energia di Washington, entro il 2015 il 25% delle importazioni negli USA di petrolio dovranno provenire dal Golfo di Guinea.
«Le responsabilità dell’Occidente (Europa compresa) sono sotto il sole africano da mattina a sera» dice ancora Giulio Albanese: responsabilità nella corsa armata all’accaparramento delle risorse naturali ma anche responsabilità di un’opinione pubblica occidentale che, a partire dai mezzi di informazione, dimentica quotidianamente quell’inferno. Tre milioni e mezzo di morti negli ultimi sette anni nella Repubblica democratica del Congo non fanno notizia.
È ancora Minà a riprendere le fila del ragionamento mettendo in connessione le colpe dell’informazione con la vergogna del terrorismo anti-castrista a Cuba. Un’informazione che mette sotto processo il popolo cubano e nasconde le 3000 vittime degli attentati con i quali, negli ultimi 30 anni, gli Stati Uniti hanno insanguinato Cuba.
Un’ulteriore tassello lo aggiunge Francesca Re David della Segreteria Nazionale FIOM-CGIL muovendo da una urgentissima lettura di classe: «il disastro di diritti e libertà, di cui questa guerra è l’espressione più tragica, è il prodotto dell’affermazione, nell’ultimo ventennio, del modello capitalistico anglosassone». La guerra è dunque guerra del capitale per i profitti e quindi contro i diritti materiali di coloro i quali producono la ricchezza (il mondo povero e i lavoratori dei paesi a capitalismo avanzato).
Ecco perché la guerra si può sconfiggere soltanto smascherando la radice sociale dei conflitti militari e, sul piano politico, «sincronizzando», come dice Cararo, «i movimenti nel Nord del mondo per la pace con quelli sociali e di resistenza nel Sud del mondo». Si può inceppare il meccanismo della guerra solamente riportando al centro il conflitto capitale-lavoro e combattendo il feticcio dello scontro tra civiltà che moltiplica a sua volta l’odio e la disinformazione.
C’è però da costruire, qui ed ora, un’agenda ed una iniziativa politica che veda di nuovo protagonista, anche in Italia, il movimento contro la guerra. Ritiro del contingente italiano (che oggi, oltre a rendersi protagonista di un’occupazione militare intollerabile, presidia i giacimenti e le concessioni petrolifere dell’Eni), smantellamento delle basi USA e NATO, taglio delle spese militari e fine della cooperazione militare: sono obiettivi necessari ed improrogabili.
Da affidare al programma di governo dell’Unione, di quel centrosinistra che «quando affianca Berlusconi nella condanna dell’intero popolo di Cuba, lo fa per dimostrare che esiste anche un centrosinistra»? «È un’immane sciocchezza, perché non esiste un centrosinistra e nemmeno un centrodestra. Se esistono è perché sono la stessa cosa». Lo ha scritto Luis Sepulveda, lo ha ribadito ad alta voce Gianni Minà, sommerso dagli applausi delle compagne e dei compagni presenti ieri sera alla festa dell’Ernesto.