Il deficit si allarga all’alta tecnologia

La Cina ancora una volta – e non è più una novità – ha fatto il pieno, ma il dato di giugno della bilancia commerciale statunitense sfata definitivamente un luogo comune: quello che addebita solo alle importazioni di merci a bassa tecnologia o a tecnologia matura l’enorme deficit Usa. Il dato dei disavanzo di giugno è, come al solito, enorme: 64,8 miliardi di dollari, appena 200 milioni meno di maggio. Ma il dato più appariscente è quello dell’interscambio di Atp, gli advanced technology products, caratterizzati nel mese da esportazioni per 22,2 miliardi contro importazioni per 24,7 miliardi, con un «buco», pertanto di 2,5 miliardi di dollari, nonostante una crescita delle esportazioni superiore a quello delle importazioni.
Con il deficit di giugno, dall’inizio dell’anno il disavanzo commerciale Usa si è attestato complessivamente a 383,9 miliardi di dollari, in aumento del 13% circa dai 340,2 miliardi del primo semestre 2005. Se questa tendenza proseguirà, fanno notare gli analisti, gli Usa alla fine dell’anno dovrebbero registrare un nuovo record assoluto del deficit commerciale, maggiore dei 717 miliardi accusato nell’intero 2005.
Giugno ha fatto registrare un nuovo record assoluto nel disavanzo con la Cina: il passivo di 19,9 miliardi (17,7 a maggio) in crescita dell’11%, rappresenta quasi un terzo del deficit totale. Molte delle merci importate dalla Cina sono, però, prodotte da Joint venture. E questo significa che i profitti prima o poi dovrebbero rientrare negli Usa. Invece, nei confronti degli altri paesi (grazie anche alla relativa debolezza del dollaro) i saldi stano migliorando. Con la Ue, in particolare, il disavanzo è sceso dell’16% a 9 miliardi, grazie soprattutto all’aumento dell’export. Stabile, invece, il disavanzo con l’Opec: 10,2 miliardi. Più in generale i paesi con i quali gli Stati uniti registrano un surplus (peraltro molto ridotti) si contano sulle dita di una mano: si va da Hong Kong (con appena 900 milioni di avanzo) all’Argentina con circa 100 milioni di surplus.
In ogni caso i dati di giugno (Cina a parte) segnalano una piccola inversione di tendenza: le esportazioni statunitensi sono migliorate in diversi settori e, in particolare, nei beni di consumo (+1,2 miliardi), nelle materie prime e nell’auto (+1,2 miliardi). La performance poteva essere addirittura migliore senza il prezzo record (accompagnato da consumi sfrenati) registrato dal greggio: 62,04 dollari/barile. Questa voce si è tradotta infatti un deficit di 24,7 miliardi di dollari per la bilancia petrolifera, comunque in calo dal tetto storico (25,8 miliardi) accusato nel mese precedente.
Il leggerissimo miglioramento del saldo della la bilancia commerciale sembra cominciare a risentire di due elementi: la debolezza del dollaro e il forte rallentamento della crescita provocato soprattutto dalle stretta monetaria avviata dalla Fed due anni fa. Ieri la valuta statunitense ha registrato ampie oscillazioni: prima è sceso sopra quota 1,29 sull’euro (il massimo degli ultimi due mesi) poi è risalito fino a 1,27. Al di là dell’elemento congiunturale la tendenza di fondo sembra quella di una svalutazione fino quota 1,35 entro l’anno. Il tutto favorito dalle indicazioni che danno l’euro in crescita trainato dai prossimi aumenti dei tassi che la Bce sembra decisa a attuare. In Usa, invece, la fase rialzista sembra esaurita. Anche se l’inflazione seguita a mordere ed è vicina al 5%, la Fed (anche se non all’unanimità) sembra più attenta a non deprimere eccessivamente la crescita che nel secondo trimestre è stata pari ad appena il 40 per cento di quella registrata nei primi tre mesi dell’anno. I segnali che sarà un settembre «freddo» non mancano: il tasso di disoccupazione a ripreso a salire; le domande di nuovi sussidi (ieri è stato diffuso il dato dell’ultima settimana) sono in crescita, mentre l’attività edilizia e immobiliare registra una stasi, come anche i consumi in generale. In forte rallentamento è anche la produttività, mentre le retribuzioni (che si muovono sempre in ritardo) stanno crescendo eccessivamente. Il tutto richiederebbe una politica fiscale e di bilancio adeguata, ma Bush su questo fronte non si muove e ha delegato tutto alla politica monetaria della Fed. Ma Bernanke non è Greenspan: deve tutto a Bush e sicuramente lo vorrà far arrivare alle elezioni di novembre senza nuovi aumenti che frenerebbero ancora di più l’economia. Poi si vedrà.