Il crepuscolo del petrolio

Si profilano scenari foschi di conflitti e recessione. Finisce l’era dell’energia facile

Per molti analisti ci avviamo verso la massima produzione di greggio possibile, dopo di che l’offerta non potrà che calare.
Sullo sfondo di un cielo invano rassicurante i numeri scorro¬no senza posa, come su un orologio digitale impazzito. A colpi di 84 milioni di barili al giorno di petrolio e di quasi 44 milioni di gas, se ne va il consumo energetico di un giorno qualsiasi sul nostro pianeta: 1480 barili al secondo per essere precisi. Sullo stesso sito web che ospita quel contatore ansiogeno, «willyoujoinus. com», campeggia la copia di un annuncio pubblicitario, uscito a metà luglio sul «New York Times» e sul «Wall Street Journal»: «Ci sono voluti 125 anni – vi si legge – per usare i primi mille miliardi di barili di petrolio. I prossimi li useremo in 30 anni. L’energia sarà uno dei temi cruciali di questo secolo. Una cosa è chiara, l’era del petrolio facile è finita». La domanda sale vertiginosamente, le scoperte di nuovi giacimenti sono sempre più rare: un incrocio minaccioso. E infatti «quando una domanda crescente incontra un’offerta calante il risultato è l’aumento della competizione per le stesse risorse», dice la pagina pubblicitaria. Il solito sito catastrofista, penserà qualcuno: niente affatto, dietro questo bollettino di guerra c’è la Chevron, una delle più grandi aziende petrolifere del mondo. Benvenuti, signori, nell’era del crepuscolo del petrolio.
L’espressione è di Michael T. KTare, autore di «Blood and Oil», un libro cruciale sul declino delle risorse energetiche tradizionali. In un recente articolo sul celebre sito liberal “cTomDispatch.com”, Klare conta tra i sintomi della malattia l’impennata dei prezzi del greggio, gli allarmi senza préecedenti sollevati dal ministero dell’Energia americano e il fallito tentativo cinese di comprare la compagnia petrolifera californiana Unocal. Fino a poco fa poche cassandre, considerate con sufficienza dagli specialisti, parlavano sul web di «Peak Oil», il momento cioè in cui la produzione mondiale raggiungerà il culmine dell’estrazione possibile, dopo di che comincerà un più o meno lento declino. Negli Anni ’50 un geologo americano che lavorava per la Shell, Marion King Hubbert, descrisse questo fenomeno con una serie di equazioni che mostravano come la quantità di petrolio estratto da un dato pozzo segua nel tempo una parabola, la curva di Hubbert. Oggi sempre più addetti ai lavori stanno prendendo in considerazione l’ipotesi che il petrolio stia per raggiungere il picco massimo della produzione. Il geologo di Princeton Kenneth S. Deffreyes, ha scritto nel suo recente «Beyond Oil» che questo dovrebbe accadere già alla fine di quest’anno, o all’inizio del 2006.
Ciò non significa che domani resteremo con le pompe vuote. Scrive Klare: «La benzina ci sarà ancora, ma non sarà a buon prezzo e abbondante come trent’anni fa. In proporzione saremo costretti ad adottare uno stile di vita più sobrio. L’America continuerà a fare la parte del leone nei consumi ma dovrà competere più duramente con i consumatori degli altri paesi, compresi India e Cina, per avere accesso alle diminuite fonti energetiche».
Il crepuscolo del petrolio non potrà che essere un’era di carenza cronica di energia e di stagnazione economica, di crisi e conflitti. Inutile però aspettarsi il colpo di pistola che darà il via alla nuova era: sparsi qui e là, ambigui, i primi segni dell’inizio sono già tra di noi. L’aumento costante dei prezzi del greggio e le previsioni al ribasso sulla consistenza delle riserve, anzitutto. Un barile di petrolio costa oggi più o meno il doppio di un anno fa. E la tendenza al rincaro non dà segni di volersi fermare.
In un’intervista a «Time» dell’aprile scorso, uno dei più celebri esperti petroliferi, Daniel Yergin, aveva visto giusto: «Stiamo entrando in una nuova fase di turbolenza dei prezzi: con questa volatilità si arriverà tra i 65 e gli 80 dollari al barile». Pochi giorni prima, gli analisti della banca di investimenti Goldman Sachs avevano messo in guardia da un’incombente stagione «che durerà per molti anni» di saliscendi nelle quotazioni, in cui il barile potrebbe schizzare fino a 105 dollari, sebbene si ipotizzasse un lieto fine: dopo una lunga tempesta, il ritorno a prezzi più ragionevoli. Tra il 1973-74, con la guerra israelo-egiziana e tra il 1979-80 con la rivoluzione iraniana, il mondo conobbe una crisi dei prezzi che impose all’Occidente una lieve e momentanea parsimonia. Oggi la situazione è strutturalmente diversa: i nuovi giacimenti petroliferi, come quelli nel mar Caspio o nell’ Africa occidentale, non riescono a coprire abbastanza rapidamente il buco lasciato dai declino dei vecchi campi come quelli in Nord America e nel mare del Nord. Inoltre, giganti come l’Arabia Saudita e la Russia, cominciano a registrare una flessione nei loro impianti più produttivi e non sembravano avere la capacità di aumentare molto la produzione.
A luglio, il ministro per l’Energia americano Samuel Bodman, ha detto al «Christian Science Monitor»: «Non era mai successo nella mia vita di vedere grandi produttori come l’Arabia Saudita arrivare al limite della loro capacità di soddisfare la domanda mondiale». La domanda vola e l’offerta non riesce a starle dietro, per Bodman è inevitabile che «nel breve termine si debba fare i conti con un regime di prezzi senza precedenti».
Mentre i consumatori smoccolano davanti alle pompe di benzina, capi di stato maggiore dimezzo mondo si preparano, da protagonisti o da comparse, all’ultima versione del Grande Gioco. Il rapporto 2005 del Pentagono si sofferma a lungo sui problemi energetici della crescente potenza cinese. Si legge nel documento: «La dipendenza da risorse e fonti di energia straniere sta modellando la strategia e la politica cinesi». Il che significa la necessità per Pechino di mantenere e difendere, in nome del vitale accesso alle fonti energetiche, le sue relazioni speciali con l’Angola, l’Asia centrale, l’Indonesia, il Medio Oriente (compreso l’Iran), la Russia, il Sudan e il Venezuela. Una rotta che va nella direzione opposta agli interessi americani e che ci fa immaginare quanto complicato potrebbe diventare il nostro futuro.
L’onda lunga dello shock petrolifero minaccerà le nostre abitudini più ostinate e il nostro ecologicamente discutibile stile di vita. «Oil Shockwave», l’onda dello shock petrolifero è il titolo di un serissima simulazione che a fine giugno ha tenute occupate molte teste d’uovo di Washington. Secondo Yahoo Finanza, hanno coordinato il gioco i senatori Richard Lugar e Joe Lieberman e vi hanno preso parte l’ex direttore della Cia Robert Gates, l’ex comandante dei Marines P. X. Kelley e l’ex consigliere per l’Economia nazionale Gene B. Sperling. Lo scopo era di stabilire come l’America dovesse comportarsi nel caso di un improvviso crollo della produzione petrolifera prodotta da eventi come una guerra civile in Nigeria o un grave attacco terroristico in Arabia Saudita.
Alla fine, la risposta è stata che Washington potrà fare ben poco. «Una volta determinatosi un crollo della produzione – hanno concluso i partecipanti – nel breve termine si potrà fare quasi nulla per proteggere l’economia americana dal suo impatto, che potrebbe portare il prezzo della benzina a 5 dollari il gallone e precipitare il paese nell’inflazione». Sembra che «Oil Shockwave» non comprendesse alcuna opzione militare. Proprio per questo è rimasto un gioco, ma tutti hanno capito come comportarsi quando verrà il tempo di fare sul serio.