Nello scenario, apocalittico ma non privo di un suo realismo, che Umberto Eco ha tracciato recentemente su la Repubblica come possibile sviluppo di una guerra che metta l’Occidente e l’Islam l’uno contro l’altro, l’Africa praticamente scompare. Non è proprio dimenticata perché si cita qua e là il caso speciale dell’Etiopia, definita un’enclave cristiana nell’universo islamico. E questa era infatti l’immagine che secoli fa circondava in Europa il paese del Prete Gianni, che peraltro, nel frattempo, a seguito dell’espansione del nucleo storico che aveva espresso la civiltà di Axum, ha inglobato terre e popolazioni musulmane, tanto che il dualismo fra cristiani e Islam è una delle linee di tensione/integrazione che caratterizzano ormai anche la sua politica interna.
Perché questa digressione sull’Etiopia? Perché la guerra in Asia sud-occidentale ha acceso spinte e controspinte un po’ ovunque in Africa. La componente islamica o islamista in alcuni casi è un preteso, in altri preme da tempo come manifestazione di integralismi o come copertura di lotte per il potere o rivendicazioni economiche. La battaglia fra musulmani e cristiani nelle città settentrionali della Nigeria è probabilmente la fattispecie più cruenta ma ci sono altri teatri preoccupanti. Dopo l’11 settembre è abbastanza frequente sentir dire in Etiopia che gli Stati Uniti dovranno finalmente riconoscere che era fondata la denuncia che da Addis Abeba è stata spesso levata contro la “minaccia” proveniente dalla Somalia (non dallo stato somalo, ovviamente, che in quanto tale non esiste nemmeno, ma da frange o movimenti dei frammenti della Somalia che strumentalizzano l’Islam per guadagnare consenso e spazio). L’idea che qualcuno possa auspicare bombardamenti o azioni militari di qualsiasi specie contro un paese disastrato come la Somalia è aberrante. Ma gli “alleati” non stanno bombardando Kabul, città di macerie per eccellenza?
Questa contrapposizione nel Corno raffigura bene le conseguenze che possono derivare in Africa come sottoprodotto della guerra americana contro l’Afghanistan (o il terrorismo islamico). Già negli anni scorsi l’aver aizzato l’Eritrea e l’Etiopia a svolgere – un po’ contro natura – la parte di avamposti del contenimento anti-Islam, intanto antagonizzando il Sudan perché “integralista”, ha certamente fomentato l’instabilità che è culminata nella disgraziatissima guerra sul confine scoppiata nel maggio 1998.
L’Africa, soprattutto l’Africa nera, può apparire defilata dal mainstream della politica mondiale, priva di ideologie forti e di identità da difendere con strategie assertive o aggressive. Per questo Eco, giustamente dal suo punto di vista, la mette in secondo piano, dopo il Medio Oriente e l’Asia. Il troppo citato Huntington, quando si tratta di mettere in fila le “civiltà” che dovrebbero scontrarsi per l’egemonia nel mondo post-bipolare, relega l’Africa all’ultimo posto, giusto per memoria, dando per scontato che il suo peso è vicino a zero. La realtà però non è così semplice. L’Africa è parte integrante del sistema globale e, malgrado la debolezza, è molto meno disponibile a farsi espropriare di valori, comportamenti e istituti di quanto comunemente non si creda.
Per tutto il periodo dell’emergenza ancora non completamente terminato – il discorso è necessariamente semplificato perché ci sono situazioni molto diverse da stato a stato – la reazione dell’Africa agli abusi interni o esterni è stata improntata più alla “fuga” che all’opposizione militante. Gli africani resistono al potere chiudendosi in sistemi paralleli. E’ il trionfo dell’informalità. Adesso che il mondo dà l’impressione di voler regolare i conti fra le forze che possono ambire a correre per il primato, le vie di fuga si sono tremendamente ristrette. Gli africani, letteralmente, non sanno più dove fuggire. Da qui le speculazioni per obiettivi di parte o di fazioni (punire la Somalia per dare un aiuto ad un governo etiopico in difficoltà) ma anche le catastrofi come quella che si è consumata in Nigeria a Kano negli ultimi giorni. In relazione all’Islam, che ci si era abituati a circoscrivere al Nord Africa, la fascia critica si è abbassata ben al di là del Sahara. Proprio come l’implacabile avanzata, anno dopo anno, del deserto.
Naturalmente in Nigeria l’Islam ha un ruolo storicamente centrale. Tutto il nord del paese è stato sede a inizio Ottocento di vere e proprie “guerre sante” che hanno determinato la sua statualità. Secondo gli storici nigeriani, l’Islam ha avuto qui più importanza dello stesso colonialismo. Non è detto naturalmente che questa importanza vada interpretata sempre e ovunque come causa di crisi. E’ vero però che in mancanza di progetti nazionali in cui credere, nel prevalere di motivi come la corruzione e lo sfruttamento dell’ambiente a fini di lucro, l’appartenenza religiosa diventa un rifugio, un motivo di mobilitazione e subito dopo di scontro. In alcuni stati della federazione è stata instaurata la sharia, generando una fatale insicurezza, e la violenza ha spazzato via le tradizioni di convivenza. Si va verso la guerra civile? Il peggio è che la Nigeria – con il Congo e più del Congo – ha una funzione di leadership in Africa e tende a provocare fenomeni emulativi.
Solo il Sudafrica potrebbe agire da antidoto. Ma il Sudafrica è lontano, ha un panorama assolutamente a sé e, soprattutto, è male “utilizzato” dalla politica mondiale. Invece di predicare la separatezza e la differenza come condanne imperiture, perché i “grandi” del mondo non mettono sul tavolo l’esperienza plurima e non-razziale di uno stato uscito a testa alta dalla prova terribile dell’apartheid? Il solo trattamento che le grandi potenze hanno saputo riservare al Sudafrica è stato il semiboicottaggio del vertice di Durban che avrebbe ben potuto sancire con il massimo di formalità l’antirazzismo o il non-razzismo come principio di questo inizio di Millennio.
L’ostilità dichiarata fra Islam e mondo occidentale – si parla ora in particolare dell’Europa – arriva a contaminare anche la diaspora nera. Gli africani che vivono nei nostri paesi sono portati, come mai in passato, a declinare la loro religione. Senonché gli africani soffrono della loro maggiore vulnerabilità. Prendere posizione per loro può risultare molto doloroso. In questo modo si è aggiunto un altro impedimento alla soluzione, più ragionevole e conveniente per tutti, di una integrazione alla pari sulla base del diritto e della cittadinanza. La maledizione del razzismo torna ad incombere sull’Africa: non dite agli africani, ai negro-africani, quale che sia la linea di comodo del loro governo o del loro paese di riferimento, che “siamo tutti americani”.