Il comunista che voleva abolire il carcere

E’ morto ieri improvvisamente nella sua abitazione a Roma Giulio Salierno. Aveva 71 anni. Scompare una delle più singolari personalità della cultura italiana, uno scrittore e sociologo giunto agli studi attraverso una dura esperienza personale. Un passato da neofascita, da legionario, aveva conosciuto anche le prigioni francesi ed algerine, vivendo al fianco dei condannati a morte; poi l’estradizione in Italia, l’inizio di una «tormentata conquista di una nuova coscienza sociale e politica», l’abiura del fascismo e infine la grazia, nel 1968, per avviare una carriera tutta dedicata allo studio delle problematiche della devianza e del carcere. I funerali laici si svolgeranno domani alle 10 all’associazione Esquilino, in via Galilei 53, a poca distanza dalla sua abitazione, a piazza Vittorio.
Stefano Anastasia
Difficile immaginare che Giulio Salierno non sia più con noi. Difficile per chi è cresciuto avendolo sempre presente, con i suoi scritti e il suo impegno pubblico, scientifico e militante; difficile per chi ne abbia conosciuta la vitalità prorompente, quella vitalità che forse – alla fine – gli è stata fatale.

Una storia romanzesca, la sua. Giulio ne era consapevole, e forse anche orgoglioso. Non a caso l’autobiografia è una cifra del suo racconto del mondo, a partire da quella del “picchiatore fascista” fino a quella che descrive i personaggi “fuori margine” che popolano le nostre galere.

La memoria, che quella passione autobiografica nutriva, si scioglieva nel suo parlare inarrestabile, prima, durante e dopo quelle trasmissioni di seconda serata, in una tv locale dell’hinterland capitolino, nelle quali ci piaceva fare il filo diretto con spettatori assai meno indulgenti di noi sulla devianza e i criminali. E inevitabilmente il discorso tornava alla sua militanza nella destra rivoluzionaria, alla fuga in Africa, alla Legione straniera, alle carceri algerine e a quelle italiane, luoghi di vita e poi oggetti di studio, secondo un continuum che solo la passione politica sa spiegare, quella passione che in galera gli fa scoprire un altro modo di vedere le cose e lo fa approdare prima alla sinistra extra-parlamentare e poi a Rifondazione comunista.

Dal 1968 era fuori dal carcere e nel 1971 scrive con Aldo Ricci quell’inchiesta sulle carceri italiane che resterà una pietra miliare nella sociologia della pena il Italia, fino a valergli – unico in Italia, teneva a ricordare – la cattedra di Sociologia per meriti insigni. Ma dei meriti insigni credo non gli interessasse gran che. Gli piaceva parlare, raccontare, spiegare, contestare, e allora una cattedra universitaria (che pure non ha mai abbandonata, in quel di Teramo) val quanto una sezione di partito, uno studio televisivo o un tavolo d’osteria.

Per noi d’Antigone, lui, il suo lavoro, il suo impegno, sono stati un punto di riferimento. E forse alla fine ha avuto ragione lui: anche quando la passione ci spinge a cercare qui e ora ciò che può essere fatto per rendere il carcere un po’ meno disumano, la giustizia un po’ più equanime, non possiamo abbandonare il disincanto e lo scetticismo che la dura realtà delle cose ogni giorno ci sbatte in faccia. Era questo il rovello dei suoi ultimi scritti carcerari. Cercheremo di farne tesoro.