Trovo sorprendente che la proposta delle primarie non abbia suscitato
nel centrosinistra nessuna obiezione di principio. Dopo che a luglio
scorso Prodi l’ha messa sul piatto del suo rientro, ho aspettato per
quattro mesi che qualcuno dicesse un no sostanziale, ma niente. Al
massimo, dubbi di carattere procedurale o contingente, schermaglie
tattiche o strumentali. Nessuno che ne contestasse la logica di fondo.
Nel frattempo abbiamo assistito alle discussioni e alle polemiche più
inverosimili e nominalistiche, come quelle sul nome e sul
posizionamento del centrosinistra, ma sulle primarie l’unico problema
su cui ci si è appuntati è stata la candidatura di Bertinotti. Fino al
punto di far dire al segretario dei Ds che in un’alleanza politica «ci
si divide sul programma, non sulla leadership». Ci sarebbe di che
rimanere sbalorditi se non sapessimo come funzionano le coalizioni dopo
l’introduzione del maggioritario e quanto abbia sfondato la
personalizzazione della politica nel nostro sistema. E’ vero, alcuni
hanno provato timidamente a proporre che le primarie si svolgessero sul
programma piuttosto che sul leader. Tuttavia, di fronte alle difficoltà
pratiche, hanno subito fatto marcia indietro, dimostrando che la loro
era solo una boutade. Il risultato è che le primarie sono entrate
pacificamente nell’agenda politica del centrosinistra, considerate un
passaggio cruciale in quella che si immagina (troppo ottimisticamente)
come una marcia trionfale verso la riconquista del governo. In esse si
vede lo strumento ideale per creare quella partecipazione che riduca la
distanza tra partiti e popolo del centrosinistra, già esplosa in modo
eclatante con il fenomeno dei girotondi, e che soprattutto legittimi
democraticamente una leadership la quale, priva di risorse proprie,
deve unificare una coalizione eterogenea e litigiosa. Niente di strano
quindi che la procedura preveda una sola candidatura effettiva. Ma,
poiché pur sempre di una consultazione elettorale si tratta, appare
altrettanto ragionevole che ci sia chi presenterà la sua candidatura di
bandiera, anche se beninteso rigorosamente non alternativa a quella del
prescelto.
Ebbene, a me tutto questo pare il segno, se non di un impazzimento,
certo di una degenerazione profonda della cultura politica nel
centrosinistra. In tutte le sue componenti, purtroppo. Sono anni che le
sentiamo polemizzare con i fenomeni del populismo e del direttismo,
paventare i «pericoli plebiscitari» e l’americanizzazione della nostra
vita politica. Però al momento opportuno, quando sono in gioco scelte
pratiche, la direzione che prendono è proprio quella. Sarebbero tanti
gli esempi da fare, negli ultimi quindici anni. Ma basta vedere a che
cosa sono stati ridotti i partiti per rendersene conto. Privati ormai
di funzioni partecipative, essi sono oggi puri strumenti politici del
leader di turno, per il resto affaccendati a tempo pieno nella
promozione del proprio personale politico. Ma a quanto pare tutto
questo non è bastato: tanto vale andare fino in fondo. Ecco allora le
primarie.
Non esiste forse un meccanismo più micidiale delle primarie per
distruggere i partiti come strutture organizzate di rappresentanza. Lo
sa bene chi conosca minimamente la storia politica degli Stati uniti.
Prima sotto l’urto del movimento progressista-populista d’inizio secolo
e poi con l’avvento della videopolitica degli anni sessanta-settanta,
le primarie hanno fatto da grimaldello per smantellare i partiti
americani. Espropriati del controllo delle candidature e ridotti a mere
etichette senza organizzazione, questi partiti hanno dovuto cedere
l’iniziativa politico-elettorale a più o meno improvvisati imprenditori
politici, agli interessi irresistibili delle corporations,
all’attivismo dei gruppi di pressione più vari. Quel meccanismo che
doveva democratizzare il processo elettorale si è rivelato insomma la
breccia perfetta per l’affermazione di una politica oligarchica. E non
è privo di ironia che ad adottarlo per primi, negli anni settanta,
furono i democratici. Il suo esito è stato infatti il crollo della
partecipazione e la dilatazione sfrenata del ruolo del denaro nelle
elezioni, cioè l’espulsione di una parte della popolazione, guarda caso
quella economicamente più svantaggiata, dal processo democratico.
Perché le primarie hanno l’effetto (all’apparenza paradossale) di
impoverire il processo democratico? Com’è possibile che questa
procedura iper-democratica finisca per avanzare sempre in parallelo con
la crescita dell’alienazione politica? Si badi bene: non dico che le
primarie provochino di per sé (o almeno immediatamente) il declino
della partecipazione. Le due cose derivano semplicemente dalla stessa
logica, quella del direttismo, che non mira alla democrazia
partecipativa, bensì ad annichilire le strutture intermedie di
rappresentanza politica. Cioè i partiti. Poiché la partecipazione è
correlata, più che a qualsiasi altro fattore, al senso di efficacia del
proprio voto, l’elettore si accorge presto che esprimersi per un
candidato piuttosto che per l’altro non serve a molto se poi non c’è
un’organizzazione collettiva che stabilmente rappresenti, traduca in
progetti politici e immetta nel processo di governo i propri interessi
e valori.
Anche in Italia, come a suo tempo negli Usa, si cerca di far passare
l’introduzione delle primarie come un favore che si farebbe ai partiti,
perché possano rinnovarsi e rivitalizzarsi. E in effetti anche qui da
noi l’innovazione è giustificata dalla crisi e dalla degenerazione in
cui i partiti sono ormai caduti da tempo. D’accordo, ma rimane il
problema che il rimedio è peggiore del male, nel senso che finirà per
ammazzare il malato. Si tratterebbe allora di fare un discorso di
verità: che cosa vogliamo farcene dei partiti? Da questo punto di
vista, è perfettamente comprensibile che Prodi, nella sua posizione,
sentendosi forte di un consenso che ormai va oltre i partiti che
originariamente lo avevano designato, non intenda più essere il loro
candidato e perciò voglia procurarsi attraverso le primarie una
legittimazione autonoma. Ma non è comprensibile che i partiti stessi
accettino volentieri di suicidarsi. Il sistema maggioritario e il
profumo del potere sono senz’altro molto forti per resistergli, per non
sacrificargli di volta in volta qualche pezzo della propria identità e
della propria autonomia, ma da gruppi dirigenti degni di questo nome ci
si aspetterebbe una capacità di guardare alla prospettiva, almeno di
sapere (e dichiarare) dov’è che ci stanno portando.
Quella delle primarie è una strada da cui sarà poi difficile
retrocedere, nel senso che non ci si può illudere che la scelta rimanga
confinata a una certa congiuntura, a certe modalità e a un certo tipo
di elezione o carica. Che cioè il meccanismo rimarrà sempre
controllabile, come sembra più o meno in quest’occasione. Lo si è visto
in America: esso tende ad autoalimentarsi, estendendosi (a tutte le
candidature, e non solo quelle monocratiche) e intensificandosi (dalle
primarie chiuse a quelle aperte, poi alle blanket e perfino alle
nonpartisan), fino ad imporne l’istituzionalizzazione. Con partiti del
genere, per metà statalizzati e per metà privatizzati, non meraviglia
che la politica sia normalmente poco attraente. Dovrebbe meravigliare
invece che ne sia proprio la sinistra il veicolo prediletto, in America
come in Italia.
*docente di Scienza politica all’università «l’Orientale» di Napoli.