Forse qualcuno ricorderà il Comma 22, il paradosso contro cui andavano a sbattere i piloti dei bombardieri americani nella seconda guerra mondiale di cui parlava il romanzo di Joseph Heller, e poi un film famoso di Mike Nichols: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo. Da allora il Comma 22 viene spesso citato per cercare di spiegare le situazioni apparentemente più paradossali. Di certo il Comma 22 si attaglia benissimo al Cile, che domenica andrà alle urne per eleggere il quarto presidente della repubblica dalla fine della dittatura di Pinochet. Dopo i democristiani Patricio Aylwin nell’89 e Eduardo Frei nel `93, l’11 dicembre si sceglierà il successore del socialista Ricardo Lagos, eletto nel `99.
D’altra parte qui siamo in Cile, il paese della «loca» geografia, un pazzesco sfilatino stretto fra la Cordigliera e il Pacifico, lungo 4500 chilometri e largo in media non più di 140, che va dal deserto arido di Atacama, «il deserto dei deserti» all’estremo nord, fino ai ghiacciai andini dell’estremo sud che precipitano in mare prima di quel mondo alla fine del mondo di cui narra Luis Sepúlveda dai nomi mitici e inquietanti – anche se divenuti ormai meta facile del turismo di massa che forse non ha neppure letto Chatwin e Coloane-: lo stretto di Magellano, la Terra del Fuoco, Capo Horn…
Il Comma 22 cileno non riguarda però (solo) la «loca» geografia quanto il dibattito politico, peraltro seguito piuttosto distrattamente dalla «gente», su cui ruota la campagna elettorale. Almeno di tre dei suoi quattro candidati presidenziali.
I difetti della «success story»
Il passo iniziale del programma di Michelle Bachelet (che qui chiamano Micelle Bacelet), la candidata socialista della coalizione di centro-sinistra al potere dall’89 e la favorita nei sondaggi, dice che «la diseguaglianza è il principale scoglio a cui ci troviamo di fronte per fare del Cile un paese sviluppato». E su questo giurano di essere d’accordo anche gli altri due candidati principali, Joaquín Lavín, il pinochettista della destra dura riciclato (perché ormai Pinochet è un lebbroso e chi lo tocca sa di morire), e Sebastián Piñera, l’anti-pinochettista (si fa per dire) della destra «moderna», quella all’americana (infatti è multimiliardario e uno degli uomini più ricchi del paese) o… all’italiana (infatti è stato etichettato come «il Berlusconi cileno»). E naturalmente è d’accordo anche il quarto candidato, l’«umanista» Tomás Hirsch, che si presenta come portabandiera dei comunisti (ma tanto lui, nonostante il notevole appeal personale e la consistente presenza nei sondaggi, non ha chances di vittoria).
Quindi tutti sono d’accordo che le «scandalose» diseguaglianze sociali – parole del vescovo di Rancagua, monsignor Alejandro Goic, presidente di una Conferenza episcopale cilena iper-conservatrice e papista – sono la palla al piede di una «success story» quale viene presentata quella del Cile transitato morbidamente (e, almeno finora, quasi impunemente) dalla dittatura alla democrazia e dei tre governi cileni della Concertación por la Democracia al potere da 16 anni filati. Ma qui tutti o quasi, ad eccezione di Hirsch (che però è fuori), sembrano dimenticare che quelle diseguaglianze ed esclusioni sono figlie legittime e non bastarde del modello economico di mercato – assurto sul proscenio latino-americano e mondiale a «modello cileno» – imposto a ferro e fuoco dal generale Pinochet e dai suoi Chicago boys nei 17 anni di regime, prima della signora Thatcher e del presidente Reagan. E tutti o quasi, ad eccezione di Hirsh (che però è fuori), dicono e giurano che «il modello cileno», con tutti i suoi successi di quegli e di questi anni, non si tocca. Vinca la destra o vinca il centro-sinistra, al massimo si ri-tocca.
Fra i tanti richiami al Comma 22 nell’ultimo quarto di secolo, il Comma 22 cileno è uno dei più inoppugnabili.
Dopo 16 anni di democrazia liberata dall’assillo del nemico alle porte (delle caserme) e di solida economia di mercato, il Cile è molto cambiato. Anche se di Cile, come di altri paesi dell’America latina ma non solo, ne restano due, separati e divisi da abissi sempre più profondi. Qui non c’è alle viste un leader «populista» – la peggior bestemmia in tempi di neo-liberismo – che metta a rischio la stabilità del «modello» e Hugo Chávez, con il suo «socialismo del secolo XXI» è detestato quasi quanto è ammirato, non solo in Cile, Ricardo Lagos, anche lui un socialista del secolo XXI ma di stampo molto diverso. Diverso, nel bene e nel male, non solo dal bolivariano Chávez ma anche dal cileno Allende.
Il generale Augusto Pinochet, che nelle elezioni del `99, quando Lagos sconfisse Lavín al ballottaggio e neanche di molto (51.3% contro 48.7), era ancora una «presenza», se non altro perché era «prigioniero» a Londra e l’establishment politico cileno al completo – con le eccezioni dei comunisti e dei familiari delle vittime – ne reclamava a gran voce la restituzione, ormai non è più un «fattore». È solo un residuato bellico che si finge demente per non finire sotto processo. Qualche giorno fa, il 25 novembre, quando ha compiuto 90 anni, solo quattro gatti di combattenti e reduci sono andati a rendergli omaggio sotto le finestre della sua residenza alla Dehesa (una delle tante), sui primi contrafforti andini nel nord di Santiago. I giornali che lo avevano glorificato per avere «salvato il Cile dal marxismo» e avere gettato le basi del «modello economico cileno», a cominciare dal Mercurio, non gli dedicano più che qualche articolo nelle pagine interne, e in genere per scrivere di quanto fosse carogna quando ammazzava la gente e, anzi soprattutto, quando rubava i soldi dello stato. Assodato che fosse un assassino e un ladro, ora il dibattito è se quando morirà – sono molti ma non tutti a sperare che prima sarà meglio sarà – dovrà avere funerali di stato in quanto ex presidente o privati in quanto delinquente comune.
Il pupillo di George W. Bush
Quelle di domenica prossima saranno le prime elezioni «de-pinochetizzate» nella storia recente del Cile, ma non solo. Anche nell’immaginario popolare la figura del generale, duro ma puro, è finita nella spazzatura della storia. All’entrata del Mercado general, dietro la Plaza de Armas e davanti al fiume Mapocho, fra i banchi di pesce e mariscos del Pacifico e fra i tavoli affollati delle marisquerias, c’è una targa che ricorda la ristrutturazione e l’inaugurazione del mercato, nell’84, alla presenza di sua eccellenza «il presidente della repubblica, generale Augusto Pinochet Ugarte» e di tutta la solita sfilza di autorità a scendere. Le autorità sono rimaste ma la riga con il nome di Pinochet è stata cancellata a mano («è un assassino, è l’oppressore del popolo cileno», fa un pescivendolo)
L’economia, intesa nel senso di macro-economia che è poi quello che sembra l’unico a interessare per sancire il successo o il fallimento di un modello, nei 16 anni della Concertación è andata tutto sommato bene: le statistiche dicono che la crescita annuale è stata intorno a un 6% di media contro un 2.4% dei 17 anni della dittatura che sfata miti e leggende. Dicono anche la povertà è stata ridotta della metà: dal 40% della popolazione nel ’90 a meno del 20% di oggi. Bene, eccetto che per l’esclusione sociale (e politica: i comunisti, i mapuches e le altre minoranze indigene…), la forte disoccupazione, le diseguaglianze «scandalose» nella distribuzione della torta, l’istruzione nelle scuole pubbliche (l’altro giorno El Mercurio annunciava, non si capiva se con rincrescimento o con giubilo, che per la prima volta nella storia cilena le scuole private nel 2004 hanno superato quelle pubbliche), la sanità che se non è privata fa schifo, le famose pensioni privatizzate per cui il Cile ha fatto scuola nel mondo e di cui George Bush, ricevendo Lagos alla Casa bianca un anno fa, aveva detto che «il Cile è un grande esempio per gli altri». Il Cile è anche l’unico paese a essere uscito quasi indenne dalle drammatiche crisi del modello neo-liberista che hanno devastato l’America latina alla fine del secolo scorso, dall’Argentina al Brasile, dalla Bolivia al Perù, dall’Ecuador all’Uruguay. Il Cile, come premio per il miglior alunno del Fondo monetario, ha stretto trattati di libero commercio con gli Stati uniti, con l’Unione europea e con la Corea del sud, ha appena firmato quello con la Cina e si appresta a firmare con il Giappone. Il rame, l’oro rosso cileno, i cui prezzi dal 2000 sono schizzati alle stelle – dai 70 centesimi di dollaro la libbra nel 2000 ai 2 dollari e 6 centesimi di quale giorno fa alla Borsa metalli di Londra – hanno avuto la stessa funzione di salvagente e di volano dell’oro nero di Chávez. Lagos è stato fortunato e bravo a gestire quella manna piovuta dalla terra. Solo che il fiammeggiante caudillo venezuelano ha usato i colossali profitti del petrolio per portare la spesa pubblica oltre il 36% del prodotto interno lordo mentre il prudente socialista cileno l’ha tenuta ferma a un rachitico 14%.
Dice Ricardo Ffrench Davis, Premio Nacional de Humanidades y Ciencias Sociales: «È chiaro che le diseguaglianze non si correggeranno se non si correggerà il modello. Altrimenti è impossibile». E gli fa eco Manuel Riesco, direttore del Centro de Estudios Nacionales de Desarrollo Alternativo: «Credo che se non ci sono cambi nel modello economico ci si possa aspettare reazioni estreme. Come in Francia».
I residui del pinochettismo
La disintegrazione della figura di Pinochet e l’economia che tira, più qualche programma statale di sostegno – come Chile Solidario – che ha fatto cadere qualche briciola di sopravvivenza hanno reso opaco il Cile, hanno spento gli entusiasmi sollevati da un cambio politico che c’è stato – e grande, per carità, sia pure lento – e da un cambio economico che non c’è stato – salvo qualche spruzzo sociale. Pinochet è «morto» ma il pinochettismo è vivo.
Questo spiega forse il perché di una atmosfera elettorale che a un occhio esterno sembra piuttosto apatica e fredda, come l’estate australe che dovrebbe essere già cominciata e invece ancora non si sente. Uno, venendo da fuori, si aspetta di trovare un fermento elettrizzato che non si vede. I candidati sono in giro per comizi e si muovono freneticamente per la loca geografia del paese in elicotteri o aerei affittati, eccetto Piñera che usa i suoi aerei – oltre che di un canale televisivo è il padrone anche della Lan Chile, la principale compagnia di aviazione civile – e Hirsch che si sposta a bordo di voli commerciali della…Lan Chile. Ma i militanti dove sono? Dov’è la mobilitazione popolare?
I seguaci di Lavín e Piñera fanno un po’ di campagna oltre la Plaza Italia, nei barrios ricchi di Providencia, Las Condes, La Reina. In centro fra la Moneda e la Plaza de Armas , l’Alameda e il Mapocho, nei tradizionali paseos pedonali di Ahumada e Estado qualche generoso banchetto che vende o regala poster, cappellini e badges di Micelle Bacelet o di Tomás Hirsch (ed è curioso che Allende lo si trovi sui banchi dei comunisti e non su quelli dei socialisti) si contende gli spazi e l’ascolto, fra la folla già impegnata nella sarabanda natalizia e le note di Stille Nacht Heilige Nacht che escono dai negozi imbanditi, con i gruppi folcloristici che ballano la cuenca, le bande di musica andina, qualche solitario cantante di tango dai capelli tinti e impomatati, i trovatori che si cimentano nel Gracias a la vida di Violeta Parra o nel Te recuerdo Amanda di Víctor Jara, i mimi e i pagliacci, i complessi di rock evangelico che sbraitano le lodi del Signore e anche qui fanno proseliti e danni.
Molto tempo fa, vent’anni e più, in queste stesse strade correva altra gente e suonava altra musica. Erano quelli che cercavano scampo o notizie dei familiari nella Vícaria de la Solidaridad che il cardinale Silva Henríquez aveva aperto a fianco della cattedrale nella Plaza de Armas; erano quelli che nel paseo de Ahumada improvvisamente levavano il grido «se va a caer, se va a caer, se va a caer el asesino Pinochet» inseguiti e picchiati dai carabineros; erano quelli che sfilavano per la Alameda nelle giornate nazionali di protesta sfidando le botte, i getti d’acqua o peggio.
I due peccati capitali
Altri tempi. Per fortuna passati. El asesino Pinochet è finito, male anche se non così male com’era giusto finisse. La democrazia, ora, è quasi piena. Resta da vedere se la socialista Micelle Bacelet, che salvo clamorose sorprese ed errori dei sondaggi sarà la prossima presidente della repubblica, già domenica o più probabilmente dopo il ballottaggio di gennaio con uno dei due candidati della destra, con il suo «essere donna» – la prima in un paese ancora estremamente machista -, figlia di un generale dell’aviazione ucciso per essere restato leale ad Allende, lei stessa passata per la prigione e la tortura dopo il golpe, saprà emendare i due peccati capitali del Cile. Il peccato politico di non aver saputo mandare sotto processo Pinochet, il peccato sociale di non aver saputo cancellare le «scandalose» diseguaglianze ereditate dal pinochettismo.