Nei primi anni Cinquanta, anche in Italia sembrò che stessero maturando i tempi per realizzare un’edizione completa delle opere di Sigmund Freud. Era una ipotesi di riflesso, che veniva avanzata sull’onda della inglese «Standard edition», della quale i primi volumi, a lungo progettati, erano apparsi nel 1953 a cura di James Strachey, un allievo di Ernst Jones che fu tra i primi a doversi confrontare col problema della sistemazione del corpus freudiano. Solo a tratti, e di certo a fatica, in Italia si stava facendo strada la consapevolezza di quanti veti gravassero ancora sull’opera del medico viennese, il cui nome – al pari di quelli di Spinoza, Einstein o Bergson – era stato oggetto di ripetuti ostracismi da parte dei solerti funzionari del Ministero della cultura popolare fascista; funzionari che, senza grandi sforzi, erano riusciti a imporre a influenti collaboratori delle terze pagine e agli editori il divieto di pronunciarsi favorevolmente nei confronti delle sue opere, bloccandone di fatto la ricezione e il dibattito.
Frenato dallo scetticismo
Persino Cesare Musatti, che pure aveva assistito con entusiasmo a una conferenza di Strachey, decise ben presto di accantonare i suoi buoni propositi. Benché si fosse inizialmente convinto della necessità di suggerire agli editori a lui vicini un’edizione impostata su un criterio tematico (come, di fatto, era stata quella delle Gesammelte Schriften, pubblicata da Freud stesso), più che su quello cronologico scelto dall’inglese, si limitò poi a constatare che i tempi erano sì maturi per riavviare e riprendere il filo di un discorso scientificamente e filologicamente fondato su Freud e interrotto dagli anni neri del fascismo, ma il «mercato» editoriale non mostrava ancora altrettanta maturità. E comunque, a tutto sembrava disposto Musatti fuorché a sobbarcarsi un progetto che avrebbe comportato l’impiego di grandi risorse di tempo, e sforzi non indifferenti anche dal punto di vista economico.Soprattutto, a una simile impresa bisognava credere, e pochi sembravano disposti a farlo. Nel 1949, Musatti aveva pubblicato i due volumi del proprio Trattato di psicoanalisi nei «Manuali» Einaudi – una delle collane destinate, con la «Biblioteca di cultura scientifica», la «Biblioteca di cultura economica» e, soprattutto, la «collana viola», già diretta da Cesare Pavese e Ernesto de Martino, a costituire l’ossatura della futura casa editrice di Paolo Boringhieri, che sulla scommessa di pubblicare integralmente Freud avrebbe costruito gran parte della sua fortuna editoriale.
Le sollecitazioni di Pavese
Senza troppi imbarazzi, Musatti dovette costatare che i libri di Freud, sottoposti al vaglio della «pubblicabilità», passavano regolarmente fra le mani dei redattori, i quali però sembravano preoccupati soltanto di togliere importanti volumi alla concorrenza, o se dimostravano interesse lo dimostravano per quegli studi più riconducibili a contesti diversi dall’ambito specificamente psicoanalitico, quali la storia delle religioni o l’antropologia. In assenza di un interlocutore attento alle sue richieste, per la verità non troppo pressanti, Musatti si trovò dunque a rispondere alle sollecitazioni di Cesare Pavese, il quale gli aveva scritto: «Noi facciamo una collezione di etnologia e psicologia dove già appare un libro di Jung: I rapporti tra l’Io e l’Inconscio, e vorremmo includervi uno o due libri di Freud. Lei certamente è al corrente di quello che si è già fatto in Italia e potrà suggerirci qualche titolo libero, preferibilmente delle ricerche più antiche». Fra le richieste di Pavese vi fu anche quella di reperire opere anteriori al 1921, libere da vincoli editoriali. A quel punto Musatti non si fece pregare e pochi giorni dopo la richiesta di Pavese, a stretto giro di posta, gli replicò che, viste le sue esigenze, forse sarebbe stato opportuno valutare sia La psicopatologia della vita quotidiana, «l’opera di Freud che ha avuto maggior diffusione all’estero», sia i Casi clinici – effettivamente pubblicato nel 1952, per le Edizioni Scientifiche Einaudi, nella traduzione di Mauro Lucentini – ognuno dei quali, osservava lo psicoanalista triestino, «costituisce un vero piccolo romanzo, perché viene descritto il progressivo svilupparsi dell’analisi in forma per lo più assai brillante e suggestiva». A Giulio Einaudi, particolarmente preoccupato di non farsi «battere da Astrolabio sul tempo» – come avvenne per L’interpretazione dei sogni apparso per la casa editrice romana nel 1952 – Musatti aveva consigliato di riprendere «l’ultima notevole opera di Freud», Inibizione, sintomo e angoscia, già disponibile nella traduzione di Servadio. Eppure, come avrebbe osservato Paolo Boringhieri, al tempo ancora redattore della Einaudi, se pure «il seme gettato da Musatti non fruttificherà immediatamente», esso segnalerà da subito «una vera necessità culturale» destinata, nel giro di pochi anni, a concretizzarsi in una delle più importanti imprese editoriali del dopoguerra: l’edizione delle Opere di Freud.
Impostate secondo un criterio cronologico, anche se quello tematico a suo tempo suggerito da Musatti veniva recuperato nel «corpus freudiano minore» rappresentato dalle opere scelte e via via presentate nell’Universale scientifica Boringhieri, il corpus delle opere freudiane sarebbe uscito in libreria soltanto nel 1966, con la pubblicazione del terzo volume, L’interpretazione dei sogni, curato da Elvio Fachinelli, dopo un lavoro di revisione e uniformazione linguistica durato molti anni, presso le edizioni che nel frattempo erano state fondate dallo stesso Boringhieri.
L’atto di nascita
Il primo aprile del 1957, infatti, da una costola delle Edizioni Scientifiche Einaudi da lui dirette, Paolo Boringhieri aveva dato formalmente vita alla casa editrice che portava il suo nome. Riprendendo il filo di un discorso per lui mai interrotto, nel 1959 Boringhieri aveva raccolto la sfida e siglato un accordo con Ernst Freud, figlio di Sigmund, per un’edizione delle opere del padre. E dichiarò, allora, di non aver mai nutrito alcun dubbio sulla necessità indicata da Musatti di provvedere a una edizione «definitiva», intendendo con ciò «non un’edizione affrettata per far conoscere il più rapidamente possibile l’opera di Freud, ma l’edizione che per decenni potesse costituire il punto di riferimento per gli studiosi»: una convinzione, questa, che aveva maturato, a un certo punto, «per esperienza di mestiere», certo anche «che il mercato l’avrebbe resa possibile» e, probabilmente, persino redditizia.
I fatti gli diedero ragione. Peraltro, Boringhieri era talmente persuaso della «bontà» del progetto che vi prestò le sue competenze linguistiche, nascondendosi con lo pseudonimo di «Ermanno Sagitario» fra i ventisette traduttori impegnati per oltre quindici anni nell’opera. Era nato a Torino nel 1921, la sua famiglia, proprietaria di uno dei più importati stabilimenti per la distillazione della birra, era originaria dell’Engadina, e faceva l’ingegnere quando a ventotto anni venne assunto da Luigi Einaudi con il preciso compito di occuparsi della cosiddetta «collana azzurra», dedicata alle scienze. Appassionato di filosofia, definito dai colleghi «il lavoratore cristiano», Boringhieri legò particolarmente con Felice Balbo, del quale, nel 1966, avrebbe pubblicato le Opere. Quando diede inizio alla propria attività come editore in proprio, Boringhieri aprì una sede in via Brofferio 3; tuttavia, per una parte della sua produzione mentenne ancora, almeno fino al 1960, il marchio delle Edizioni scientifiche Einaudi. Fu grazie al suggerimento di Giulio Bollati (per anni suo collega di studio e lavoro, che nel 1987 sarebbe divenuto, passata di mano la proprietà, direttore editoriale della casa editrice, da allora Bollati-Boringhieri) che Paolo Boringhieri inaugurò per i suoi libri un nuovo marchio, quella incisione quattrocentesca affiancata dal motto «Celum stellatum» che ancora oggi contraddistingue la casa editrice.
Come scrive l’attuale direttore editoriale, Francesco Cataluccio, nella sua premessa alla riedizione del Catalogo generale Bollati Boringhieri, fu negli anni trascorsi alla Einaudi che Boringhieri rafforzò le proprie idee sul fatto che la modernizzazione della società italiana non potesse compiersi se non attraverso la divulgazione della scienza; e la scienza andava promossa – fatto al tempo assolutamente innovativo – «non in non in antitesi ma accanto alle scienze umane». È chiaro come Boringhieri intendesse la questione in una accezione assai ampia e mai dogmatica: lo testimoniarono, del resto, la pubblicazione (concomitante a quella di Freud) dell’opera di Jung – condotta sulla base dell’edizione svizzera in diciannove volumi, e affidata alla direzione di Luigi Aurigemma – ma anche dei lavori di Marie Louise von Franz, di Jacobi, di Adler, di Abraham o di Pavlov, oltre alla prosecuzione della linea a suo tempo delineata da De Martino e Pavese, con la discussa «collana viola» a cui si sarebbero affiancate le opere di Heinsemberg e di Pauli fino alla pubblicazione, nel 1959, dell’ Origine delle specie di Charles Darwin.
Particolarmente significativa fu poi la collana «Enciclopedia di autori classici», diretta a partire dal 1958 da Giorgio Colli, il brillante allievo di Gioele Solari, già condirettore con Balbo e Bobbio dell’einaudiana collana dei «Classici della filosofia».
In soli nove anni, dal 1958 al 1967, trovarono spazio nell’«Enciclopedia» ben novanta titoli, un risultato imponente raggiunto grazie al clima ottimale in cui lavorava un gruppo di ricerca affiatato, composto da allievi e studiosi che in gran parte avevano già seguito Giorgio Colli nell’esperienza alla Einaudi, e ai quali ora si affiancava la significativa figura di Mazzino Montinari.
Confortati da Boringhieri, Colli e i suoi collaboratori si ritrovarono uniti da un progetto comune e ambizioso, quello di pubblicare una serie di testi che in qualche modo ricalcassero le letture fatte da Nietzsche sull’onda di Schopenhauer, affiancando così alla proposta di testi chiave delle religioni orientali, la riproposta di un numero rilevante di classici della scienza e del pensiero europeo. Proprio Montinari, rievocando il clima e l’esperienza dell’«Enciclopedia» avrebbe poi ricordato come si fosse trattato, in primo luogo, di «formare una sorta di nuova comunità di lettori e collaboratori, pubblicando dei testi che all’intellettualità accademico-politico dominante non potevano che risultare inattuali e fuori moda, anzi in certi casi addirittura irritanti e scandalosi». Accanto a scritti di Ippocrate e Fermat, Platone e Leibnitz, Darwin e Newton, trovarono posto il Pascal del Trattato sull’equilibrio dei liquidi e l’Adam Smith della Ricchezza delle nazioni, lo Stendhal della Filosofia nova e lo Spinoza dell’Etica.
Una infilata di nuove collane
Alla collana diretta da Colli si affiancarono ben presto quelle dei «Classici della scienza», dei «Testi della fisica contemporanea», dal 1964, diretta da Pier Francesco Galli, il «Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia» e, dal 1965, l’«Universale scientifica» – forse la più riconoscibile, anche graficamente – che in poco tempo permise a Paolo Boringhieri di presentarsi come uno degli editori più all’avanguardia ma al tempo stesso più attenti – lo si legge nell’introduzione al catalogo del 1960 – «a ogni livello di preparazione», interessandosi a «quasi tutti i campi della scienza». Egli – si legge ancora, in quella che rimane forse la migliore descrizione del suo programma etico, oltre che editoriale – «cerca un terreno d’incontro tra gli specialisti e i non specialisti, e nel far ciò, la considerazione scientifica delle cose viene confrontata con quella umanistica, attraverso i classici. L’interesse editoriale non è soltanto rapsodico, ma formativo, nella ricerca di un’unità della cultura e di prospettive vivificanti».
Nel 1987, sette anni dopo aver portato a termine la pubblicazione dell’Opera di Freud, Paolo Boringhieri (scomparso lo scorso agosto) cedette all’amica Romilda Bollati le azioni di controllo della casa editrice, che assunse il nome di Bollati Boringhieri. Era dunque arrivato il momento di ritirarsi a vita privata. La direzione fu assunta da Giulio Bollati, assistito fino al 1993 da Armando Marchi, che si prodigò nel promuovere una sorta di «rinnovamento nella continuità», aprendo nuove collane – «Temi», «Varianti»e, dal 1991, le «Variantine», segnate dal successo editoriale del Servabo di Luigi Pintor, «Nuova Cultura», che ospitò il discusso saggio di Cluadio Pavone sulla Resistenza come guerra civile e «Pantheon».
L’apertura a altri temi
Erano tutte collane indirizzate al potenziamento dei settori dell’arte e della letteratura, oltre che della storia e delle scienze sociali, e per la prima volta nel catalogo vennero introdotti anche libri dedicati alla fotografia. «Non vedo perché», dichiarava Bollati rispondendo a chi gli rimproverava di aver virato troppo sul versante delle letteratura, una casa editrice scientifica sia condannata a esprimersi «per formule e per cifre». «La scrittura è uno strumento conoscitivo: vogliamo lasciarla fuori dalla porta per un vieto ossequio ai generi, alle specializzazioni? Una casa editrice scientifica deve assolutamente occuparsi del linguaggio… Nella scoperta scientifica c’è gioco, ma c’è anche espressione, c’è anche stile, c’è anche fantasia».