Il caso Siria e l’ombra del fattore esterno

DAMASCO 29 MARZO 2011

Cosa c’è di diverso tra ciò che è successo in Tunisia, in Egitto, in Libia e quello che sta succedendo in Siria?

È quello che continuo a chiedermi parlando con i ragazzi della città vecchia: commercianti, studenti, cittadini della medina al quadima, quella in cui sono ambientati molti telefilm arabi, quella delle feste, delle serate, dello shopping. Anche nell’isola felice di Damasco, proprio quella che sembrava immune da cortei e rivolte, proprio quella delle feste, delle serate e dello shopping finiscono per insinuarsi le perplessità sulla politica, sulla cronaca e sui maledetti fatti di Daraa.

“Cos’ è successo a Daraa?”

“Niente” mi risponde Malik, studente di farmacia.

“Ma ci sono stati 150 morti…”

“Ma quali morti! Non sono gli abitanti di Daraa ad essersi ribellati! Sono infiltrati di Israele, con l’appoggio della stampa occidentale!”

“Ma Al Jazeera, Al Arabya, le associazioni per i diritti umani, perfino Amnesty International…”

“Non ti fidare dei giornali!”

“Tu cosa leggi? Di cosa ti fidi?”

“Io non leggo. Io vedo. Ho amici a Daraa, stanno bene, ahmdulillah. Non è successo niente.”

Così la pensa anche Mohammed, che ha la famiglia che vive a Daraa e stanno tutti bene, grazie a Dio. Mi dicono che per i giornali il Medio Oriente è la parte oscura del mondo, quella dei terroristi e dei beduini, delle violenze e delle oppressioni.

Per loro il nemico non è il governo, non è Basher Al Asad, non è il partito Baath. Il nemico è fuori, è lo spettro dell’Occidente, è Israele. Le tensioni interne sono lotte di tribù, lotte per il potere. I morti non sono cento, sono 4, non ci sono, saranno una decina, mio padre ha detto sei, nessuno, un paio, era un corteo, una guerriglia, una lotta armata, non era nulla… Non erano di Daraa, venivano dalla Giordania armati da Israele, si sono uccisi tra loro perché l’Occidente vuole che crolli anche la Siria.

“Chi ha sparato? Chi sono i ribelli? Cosa vogliono? Cosa succederà qui a Damasco?”

La risposta è sempre la stessa: “mafi”, che significa “non c’è”. Risponde così anche Samir, che aiuta suo padre al negozio e parla un buon italiano. “La Siria non è l’Egitto. L’Occidente vuole che la Siria crolli. Te lo dico io.”

“Te lo dico io” me lo ripete anche Bernard, damasceno di origine francese. Poi interviene Mumtaz, è arrabbiato, mi dice che a Israele fa comodo che Al Assad crolli, che fa comodo all’Occidente soffiare sul fuoco di queste rivolte. Ne sono convinti tutti, ma non leggono i giornali perché non ci credono (o perché non capiscono l‘arabo classico…). Credono ad amici e parenti di Daraa, Homs, Kamishli, Baniyas, Latakia. Credono solo ai siriani. Di certo non ai giornali occidentali e filoisraeliani, ma non credono nemmeno ai giornali siriani perché sono proprietà del regime.

“E se c’è un regime e la stampa non è libera” – gli chiedo – “come diavolo potete credere alla teoria del complotto?”

Eppure ci credono. Si arrabbiano loro e mi arrabbio anche io. Frustrati dai pregiudizi, rispondono con la stessa arma. Mi rispondono come se fossi sionista, colonialista, filoamericana, mi dicono di pensare a Berlusconi che va a troie e bacia la mano a Gheddafi. E diciamolo, non hanno tutti i torti.

Un attimo prima sei una loro, bint filastinya, ragazza palestinese, perché balbetti qualcosa di arabo e porti la kefiah. Ma se chiedi di Daraa torni dall’altra parte del Mediterraneo, in Europa, oppure oltre l’Atlantico, in America. E non sei più una di loro. Rispondono con la presunzione di conoscere quello che sta accadendo solo in quanto arabi siriani. Lo ripetono con fastidio perché loro sono arabi e tu occidentale, perché loro sono grandi e tu piccola, perché loro sono uomini e tu donna.

Sono offesi da questa pressione dei media. Sono offesi dalle nostre domande e dalle nostre preoccupazioni. E mi sento offesa anche io. Sono offesa perché volevo ascoltare i cori dei bellissimi giovani di piazza Tahrir e invece non li sento. Non qui, nella medina al quadima.

Ieri le strade di Damasco erano gremite di manifestanti, in tutta la città si sventolavano bandiere e risuonavano musiche siriane e cori. Ma non erano i cori delle rivoluzioni. I Damasceni gridavano “Allah Surya Basher wabas!” che significa: “Dio, Siria, Basher e basta”.

È facile per un governo, e soprattutto per un regime, riempire le piazze dei propri sostenitori. Ma non erano le piazze ad essere piene di gente, o meglio non solo quelle. La Damasco di ieri mi ricordava l’Italia dopo la finale dei mondiali del 2006. Auto e motorini passavano strombazzando e sventolando bandiere, inni e canzoni nazionali echeggiavano per le strade, caos, traffico e disordini festosi.

Questi non sono i ragazzi di piazza Tahrir. E la voglia di ascoltarli di nuovo urlare “hurria”, libertà, e “dimukratya”, democrazia, può farci correre il rischio di non ascoltare le tante voci di questa rivolta siriana.

IL GOLAN COME COLLANTE NAZIONALE

In Siria vive una comunità palestinese di circa 300.000 persone. La politica anti-israeliana è stata da sempre il principale obiettivo sia di Hafez Assad che del figlio, l’attuale presidente Basher. La perdita delle alture del Golan in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del ’67 è il principale ostacolo ai processi di pace. Nel ’73, con la guerra dello Yom Kippur, la Siria riottenne solo in parte la restituzione di questi territori. Sono zone di grande importanza strategica: il bacino dell’altopiano costituisce un facile accesso alla Galilea da ovest, e a Damasco da est. Per non parlare della questione dell’approvvigionamento idrico: nelle alture del Golan c’è lago di Tiberiade, numerosi fiumi e falde acquifere. L’acqua è una riserva preziosa in queste zone dove scarseggiano le risorse idriche.

Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la posizione siriana è sempre la stessa: la pace con Israele è possibile solo a condizione di un ritiro dalle alture del Golan, che poi dovrebbero essere demilitarizzate con garanzie internazionali. La prima fase dei negoziati è stata seguita su questa linea da Hasef Assad, che ha poi passato il testimone al figlio Basher.

Il recupero del Golan è una priorità per il governo. È un rospo difficile da ingoiare per i siriani. Questi ragazzi nel 1967 non erano ancora nati. Eppure sentono il peso del torto fatto ai loro padri e al loro paese. Sentono il peso di una politica internazionale pronta a divorare le loro ricchezze e succhiare le loro energie. È questo che li unisce a Basher. È questo che li divide dai ragazzi del Cairo, di Tunisi e di Bengazi.

Che ne sarà della questione israeliana dopo Basher? La fine della linea dura porterebbe la Siria ad un allontanamento dall’Iran, il principale nemico degli Stati Uniti e di Israele, determinando così un indebolimento di Hamas e di Hezbollah. Il quadro mediorientale verrebbe completamente ridisegnato.

Ci sono troppi interessi in gioco per sottovalutare i vantaggi che Israele avrebbe se cadesse Basher.

Questi ragazzi non leggono e sono restii a parlare di politica. Ma ci sono loro per le vie di Damasco in questi giorni. E forse con tutta la loro rabbia, i loro pregiudizi, il loro rifiuto a guardare i crimini e il sangue sparso dal loro regime, i loro cori tanto lontani dalle belle parole di piazza Tahrir, anche loro ci stanno dicendo qualcosa. Perché nessuno li ascolta?

(I nomi dei ragazzi sono nomi di fantasia per motivi di sicurezza).

* studia all’Università di Damasco in un corso postlaurea,