Il veleno della guerra ne ha fatta di strada nelle nostre vene, e da prima del massacro alle Twin Towers l’11 settembre 2001, almeno per noi europei. Fu il 1991, infatti, che ci presentò improvvisamente la guerra, con la prima spedizione nel Golfo – perché vi eravamo implicati, ed era così vicina – come un evento sconvolgente: si ricorda il diffuso fenomeno di accaparramento di viveri nei supermercati al suo annuncio, segno che la memoria dei cittadini europei traumatizzati da due guerre mondiali era dormiente ma non anestetizzata dai successivi decenni vissuti «in pace»?
Guardiamoci oggi: non più evento, la guerra è l’ombra della nostra quotidianità e ha infiltrato il suo veleno nella cultura materiale, nell’agire civile e politico, rispolverando un’aura di assolutezza alla coppia paradigmaticaamico-nemico. Il «caso» cucito addosso allo scrittore Peter Handke è solo l’ultimo esempio di una proposizione addirittura banale – la guerra che perverte le pratiche sociali usuali – eppur capace di annichilire ogni autosorveglianza anche in alcuni intellettuali, ad onta dei fasti della «modernità riflessiva» celebrati come caratteristica saliente delle nostre società ‘mature’.
La campagna contro lo scrittore, accusato di ‘tenerezze’ per l’ex capo del regime serbo Milosevic tanto da essere andato al suo funerale, è stata inaugurata dal rifiuto della Comédie française – con queste motivazioni – di rappresentare una sua opera, già in cartellone. E da ultimo la città di Dusseldorf – in testa socialdemocratici, liberali, verdi – decide di annullare la consegna del premio di letteratura «Heinrich Heine», attribuito allo scrittore austriaco il 25 maggio. Il tutto accompagnato dal clamediatico – in Italia si segnala fra gli altri l’intervento del filosofo francese Bernard Henry Levy sul Corsera domenica scorsa, il quale depreca la censura della Comédie (perché intervenuta dopo, e non, semmai, preventivamente) in difesa dunque di Peter Handke che per Levy è comunque «un fascista».
C’è voluto Wim Wenders per spazzare via i fioretti di cotanta buona coscienza ‘liberale’. Ieri su Repubblica Wenders lancia fra l’altro un monito, che ha a che vedere non con le affermazioni politiche di Peter Handke ma con quelle dei suoi ‘giudici’ mediatici, in particolare tedeschi. Handke, puntualizza il regista, insorge anche «contro la tendenza a condannare in blocco un intero popolo», i serbi, e su questo proprio la Germania «dovrebbe usare estrema cautela nelle sue reazioni e argomentazioni», visto che, all’indomani della seconda guerra mondiale «noi tedeschi siamo stati perdonati» come popolo.
Ma anche per chi non è tedesco, tocca riflettere sull’ipocrisia dell’Unione europea, che a suo tempo ha giocato complice con i dittatori nazionalisti locali, serbi, croati e quant’altro, perché le loro ‘pulizie etniche’ ben si prestavano, in fondo, al fine di smembrare la ex Jugoslavia – obiettivo di potere geopolitico, e ideologico dopo l’89, della Ue.