Il cantiere navale di Ancona*

* tratto dal numero di settembre di “ Su la testa” – Materiali per la rifondazione comunista”. Pagina de “ Le pratiche”

Un fenicottero ferrigno, titanico, altissimo, che cresce tra le navi del porto, tra le moltitudini che incessantemente sbarcano e si imbarcano per i porti veneti, croati, greci, ottomani, un ippogrifo che da tempo immemorabile ghermisce il cielo dei dorici: è l’immensa gru che si leva dal cantiere navale di Ancona, che si riconosce dai treni – come una madeleine di Proust – tornando da lontano, che si staglia sulla città e risiede permanentemente – come la Eiffel per i parigini – nella memoria, nei cuori, nell’inconscio di ogni donna ed ogni uomo di Ancona.

Il fenicottero potrebbe però, presto, spiccare il volo, andarsene dalla città, uscire dolorosamente dalle sue carni vive: il cantiere navale è in crisi e anche la gru sempiterna non avrebbe più senso senza più navi da costruire, ponti e prue da spostare. La sola idea di essere abbandonati dal loro grande uccello di ferro fa piangere gli anconetani: contro tale pericolo si immettono su facebook, in rete, rabbia, proteste, canzoni popolari.

Ma la crisi del cantiere navale evoca ben più che il dolore per la caduta di un simbolo: tale crisi muta i connotati sociali di un’intera città, di un’intera provincia, di un’intera “classe”, quella operaia, che messa in ginocchio rischia di trascinare con sé, nella sua emarginazione, l’intero proletariato dorico.

Ancora negli anni ’70/ ’80, lavoravano al cantiere navale ( Fincantieri) tra i 3.500/ 4 mila operai, più i lavoratori dell’indotto, altre centinaia. Il cantiere era il cuore pulsante della città e della provincia anconetana: da lì uscivano tra le più belle navi d’Italia e d’Europa, nel suo ventre d’acciaio si forgiava una classe operaia d’avanguardia che si offriva non solo come punto di riferimento vincente e ineludibile per le lotte dell’intero mondo del lavoro, ma anche come “cervello” sociale, culturale, politico per lo sviluppo generale dell’intero territorio. Da quella classe operaia attingevano il PCI e la CGIL per costruire le loro strutture dirigenziali, da quella “classe”, dai clangori del cantiere, saliva una nuvola di civiltà, che segnava di sé l’intero popolo anconetano. Da quella “classe” uscivano dirigenti politici di stoffa pregiata, parlamentari comunisti in grado di “trasformare il Parlamento borghese in cassa di risonanza della lotta di classe”, rivoluzionari rimasti nella memoria dei lavoratori come il compagno, ormai scomparso, Araldo Gambini.

Ora, vent’anni dopo, si vive il tempo del pericolo: la grande gru della Fincantieri rischia d’essere smontata e insieme ad essa un’intera storia, un’intera civiltà del lavoro. Il cantiere navale è in agonia, le commesse per la costruzione di navi non arrivano più; gli operai rimasti sono 610, di cui 250 in cassa integrazione da mesi e mesi e l’orizzonte vicino è ancora più oscuro. Ci dice Michele Giacchè, giovane operaio Fincantieri, Rsu Fiom, militante del Prc anconetano, erede della grande scuola operaia e comunista del cantiere navale: “ Dal prossimo 5 ottobre altri 300 operai rischiano la cassa integrazione; non è inverosimile pensare che a fine anno, nel prossimo gennaio, in questo cantiere, in cui in tempi non lontani lavoravano migliaia di arsenalotti, possa ritrovarsi tristemente a perdersi in immensi spazi dismessi un pugno di 50/80 operai”.

L’angoscia regna sovrana, al cantiere e in città : ciò che un giorno era visto come una jattura ( l’eventualità di trasferimento, per gli operai, nei cantieri lontani di Monfalcone, Marghera) oggi è vissuta come la speranza residua e la rottura dei legami con le famiglie, con le mogli e i figli è vissuta come il prezzo da pagare per il mantenimento del salario. Un salario che per i tanti operai in cassa integrazione è già ridotto da tempo a 700/800 euro, una miseria che fa esplodere come dolorosi fuochi d’artificio i problemi dei mutui da pagare, dei figli da mandare a scuola, della spesa quotidiana…

Perché questa crisi, perché in un cantiere così ricco di strutture, di storia, di cultura della produzione navale, di profonda e tramandata conoscenza artigianale ( ancora oggi centrale nella catena produttiva navale), perché non vi sono più commesse, lavoro?

La prima risposta, quella che serpeggia tra gli arsenalotti, in città, nel senso comune è che la concorrenza della Corea del sud, del Giappone, anche della Cina è troppo forte e che la somma dell’abbattimento dei costi e dei prezzi e della qualità nella produzione di navi da parte dell’area asiatica mette in mora la cantieristica italiana ed europea. Ma su questa prima superficie analitica si sovrappongono, nelle coscienze appena più evolute, altre due determinanti questioni, che tra loro si intrecciano: da una parte la “linea” dell’Unione europea, tendente – in una sorta di “concordata”divisione del lavoro internazionale – a smobilitare la cantieristica europea e, d’altra parte l’atteggiamento del governo italiano, subordinato ( “drammaticamente subordinato”, afferma Michele Giacchè) alle politiche antioperaie della stessa Ue.

La Fiom di Ancona lo rimarca da tempo: assumere il dato oggettivo della concorrenza coreana e fermarsi a questo vuol dire solo fare una fotografia dell’esistente, vuol dire arrendersi ai dati fenomenologici, vuol dire non cercare strade d’uscita e in ultima analisi vuol dire far pagare tutto il prezzo ai lavoratori. Gli arsenalotti lo sanno: nella subordinazione alla “cruda realtà” vi è un disinteresse cinico verso di essi e il loro destino. Essi sanno che occorrerebbero investimenti sul fronte tecnologico, sul fronte della produttività sofisticata e avanzata e sanno che tali investimenti – su di una azienda completamente pubblica come la Fincantieri – il governo Berlusconi non intende farli; sanno che in questi tempi iperliberisti e fortemente volti alle privatizzazioni non c’è interesse a rilanciare la cantieristica pubblica. E sanno anche – i lavoratori – che occorrerebbe cambiare radicalmente linea di produzione, passando strategicamente a mettere in acqua, in produzione, “navi speciali”, navi da trasporto merci, al fine di superare l’inferno del trasporto su gomma e valorizzare il trasporto per mare, meno costoso, meno pericoloso, meno inquinante. Ma sanno anche – l’hanno imparato sulla propria pelle attraverso tante battaglie perse – che un tale cambiamento di linea produttiva e un progetto di produzione fortemente ecocompatibile e volto alla difesa e al rilancio dell’occupazione, incontra grandi diffidenze conservatrici e veri e propri “muri”, volti alla difesa di altri e alti picchi di profitto.

Un grande accordo con l’ENI, dicono i lavoratori, dice la FIOM, un accordo volto alla costruzione di un vasto parco di navi mercantili – per trasporto gas, per esempio – sarebbe rivoluzionario, andrebbe incontro agli interessi economici statuali, generali e agli interessi dei lavoratori. Ma un accordo tra Fincantieri ed ENI sarebbe anche “troppo” pubblico, indicherebbe una via d’uscita non più liberista e ha già contro tutti i poteri forti: l’Unione europea, il governo, gli armatori privati…

Vent’anni fa – ad una crisi simile di commesse – si rispondeva con una massiccia inversione di tendenza sul piano produttivo, volta a mettere in cantiere e varare navi da guerra e ci volle – allora – la lungimiranza e la coscienza di classe di operai rivoluzionari, di capipopolo come Araldo Gambini per dire “no” al disegno delle cannoniere.

Ora, anche l’ultima nave da guerra è stata costruita ( la grande porta aerei “Cavour”, tre anni fà, per la marina italiana) e nulla vi è più all’orizzonte, persino su questo infido versante.

Molte sono state le dolorose stazioni della via crucis del cantiere navale dorico: il tentativo – 10/15 anni fa – di imporre al suo interno un sistema “toyotista” di produzione, una sorta di progetto ante litteram alla Pomigliano d’Arco, tendente a sovraeccitare i ritmi produttivi, ad abbassare dunque, e drasticamente, ogni misura di protezione ( con il conseguente, drammatico, moltiplicarsi degli infortuni sul lavoro e di fenomeni come quelli della cecità e della sordità); il disegno – davvero nefasto – di far entrare in produzione i lavoratori delle famigerate ditte d’appalto, che – iniziando col portare al lavoro alcune decine di immigrati sottoproletari – finirono per far entrare al cantiere circa 1.200 operai tunisini, algerini, marocchini, bangladesci, rumeni e altri “dannati della Terra”, poveri cristi senza contratto, con tempi di lavoro indefiniti, sottosalarizzati: un vero e proprio esercito industriale di riserva da lanciare contro la classe operaia indigena, anconetana, della Fincantieri. Tuttora, sono tra i 1.500 e i 2 mila i “dannati della Terra” usciti dal cantiere in questa fase priva di commesse e pronti a rientrare qualora il lavoro tornasse. L’entrata massiccia dei lavoratori immigrati nei processi produttivi ha messo corposamente in luce almeno due fenomeni: da una parte la capacità del capitale di dividere la classe operaia ( il lavoro sottosalarizzato e privo di diritti degli immigrati tendeva fortemente a ridurre i salari ed erodere i diritti dei lavoratori indigeni); d’altra parte l’incapacità di fase, anche della Cgil, di mettere in campo una politica, un’azione, volta ad unificare la classe, ad unire lavoratori immigrati e indigeni nella lotta per gli stessi diritti e lo stesso salario.

Il punto è che l’insieme delle politiche liberiste e la somma delle sconfitte operaie ha indebolito sia il cantiere navale di Ancona in quanto tale, in quanto struttura e progetto produttivo, che la stessa classe operaia dell’Arsenale. E ciò nel momento di massimo attacco all’intera cantieristica pubblica italiana.

Non sarà facile invertire la rotta. Occorrerebbe un cambiamento radicale di prospettiva entro il quale – come chiede la FIOM – il ritorno all’intervento pubblico nell’economia tornasse centrale. Vista la debacle del progetto capitalista e della destra italiana, vista la condizione materiale dei lavoratori, dovrebbe essere questo uno degli obiettivi primari delle forze comuniste e della sinistra. Un obiettivo arduo, in totale controtendenza, ma che sarebbe esiziale non tentare di perseguire.