Il buco nero di Lampedusa

Ha fatto molto discutere la notizia dell’iscrizione del ministro Pisanu nel registro degli indagati a seguito dell’avvio di una indagine preliminare sulla base di un esposto presentato da un folto gruppo di parlamentari dell’opposizione (primo firmatario Elettra Deiana) ed esponenti di associazioni, avente ad oggetto il trattamento riservato ai profughi che sbarcano a Lampedusa.
Se è comprensibile – sul piano personale – l’irritazione del ministro direttamente interessato, non si può accettare la tesi della speculazione politica o elettorale, agitata, con scandalo, dal centro destra, neppure alla luce della richiesta di archiviazione che il pm ha presentato al tribunale dei ministri.

In realtà la richiesta di archiviazione lascia trapelare una serie di indagini preliminari effettuate dall’Autorità Giudiziaria, che hanno reso doverosa l’iscrizione del ministro Pisanu nel registro degli indagati. Tali indagini non sono state generate da affermazioni calunniose o da speculazioni politiche dei parlamentari dell’opposizione, bensì dall’esigenza dell’accertamento dei fatti in una vicenda che riguarda il destino di migliaia di persone.

Sempre dalla richiesta del Pm emerge che l’accertamento dei fatti, fin qui compiuto dall’Autorità Giudiziaria ha chiarito alcuni aspetti, ma ha lasciato irrisolti alcuni nodi fondamentali. Di qui l’opposizione all’archiviazione da parte dei denunzianti e la richiesta di ulteriori accertamenti che, in questa vicenda, appaiono doverosi.

E’ bene chiarire che l’indagine in corso non rappresenta una indebita intrusione del giudiziario nel recinto della politica. Il problema della regolazione dei flussi immigratori e del contrasto all’immigrazione clandestina è questione politica, che impegna la responsabilità politica dello Stato al massimo livello. Come tale esso è suscettibile di risposte differenziate, di differenti opzioni e strategie, di differenti soluzioni, rimedi, provvedimenti e vincoli.

Tuttavia, anche in questo settore, come in tutti gli altri, la politica incontra il limite del diritto, che pone un argine strutturale all’arbitrio della decisione politica ed all’onnipotenza dei decisori.

Sulla frontiera dell’immigrazione clandestina è più stridente questo confronto fra politica e diritto, in quanto la libertà di azione degli organi politici è massima, mentre sono minori le precauzioni che normalmente presidiano l’azione politica.

In presenza di politiche che assumono come stella polare l’esigenza del contrasto al fenomeno dell’immigrazione, diviene facile varcare, anche involontariamente, le colonne d’Ercole del diritto.

Un esempio chiarirà la questione. Nel 1997, si è verificato un intenso movimento di immigrazione clandestina verso l’Italia proveniente dall’Albania.
Le autorità politiche dell’epoca reagirono affidando alla Marina Militare il compito di pattugliare le acque dell’Adriatico meridionale per interdire la navigazione del naviglio dei clandestini. Nel quadro di questa attività, il 28 marzo del 1997, nel canale di Otranto, la nave della marina militare Sibilla, speronò la motonave Kater I Rades, proveniente dall’Albania, carica di persone che volevano illegalmente immigrare in Italia, provocandone l’affondamento e la morte di almeno 84 persone.
In questo caso una politica – astrattamente legittima – che mirava a scoraggiare l’immigrazione illegale ha provocato un evento fortemente antigiuridico, dal momento che l’affondamento dei navigli degli immigrati clandestini – qualunque siano le direttive politiche – è comunque un reato, interdetto dalle leggi penali.

Non a caso il comandante della Sibilla è stato tratto a giudizio e condannato dal Tribunale di Brindisi per naufragio ed omicidio plurimo colposo.

Del resto una politica determinata a scoraggiare i flussi di immigrazione potrebbe trovare conveniente il ricorso a metodi sbrigativi, se non fosse per il pericolo di dover rendere conto ai giudici. In un ordinamento fondato sulla “rule of law”, ovvero in uno Stato di diritto, è compito dell’Autorità giudiziaria accertare i confini fra ciò che appartiene al regno della politica e ciò che travalica e merita il sindacato giudiziario.

Non si tratta di un accertamento facile, ma non possiamo metterci i paraocchi e far finta di ignorare il problema. Tutte le politiche dell’immigrazione, da qualunque governo siano poste in essere, sono esposte al rischio di travalicare e di determinare una ingiusta lesione di diritti della persona, che l’ordinamento considera universali ed inviolabili.

In questo contesto particolarmente preoccupante è la situazione che si è determinata a Lampedusa e che ruota intorno all’applicazione che è stata fatta – in concreto – dell’istituto del c. d. “respingimento differito”.

Attualmente Lampedusa è una sorta di “buco nero” del diritto, una Guantanamo italiana. In questo buco nero precipitano migliaia di persone, che vengono trattenute in condizione di non libertà, per poi essere, con metodi coercitivi, rispedite oltremare, dove le attende un destino incerto, senza che nessun giudice possa intervenire, come prevede l’art. 13 della Costituzione, a tutela della libertà personale e degli altri diritti che l’ordinamento considera inviolabili (ivi compreso il bene della vita).

Si è creato, pertanto, uno spazio franco dal diritto nel quale viene gestita una popolazione sottoposta a provvedimenti restrittivi e coercitivi ed esclusa dalle garanzie che lo Stato democratico accorda a chiunque (come la possibilità di fare ricorso ad un giudice per tutelare i propri diritti).

Non v’è dubbio che tale situazione fuoriesce dal regno della politica e postula l’esigenza del controllo di legalità e del sindacato giudiziario, che deve concorrere a ripristinare i confini del diritto e dei diritti inviolabili della persona, a fronte dell’arbitrio dei decisori politici.