Il Brent brucia: 71,4 dollari

Si trattasse di un argomento diverso, rischieremmo di annoiarci. L’ennesimo aumento del prezzo del greggio, invece, immette adrenalina. Il Brent del Mare del Nord – una qualità pregiata quasi quanto il West Texas Intermediate (Wti) quotato a New York sopra i 70 dollari – ha fatto segnare il proprio record storico, che per la prima volta è anche record assoluto: 71,40 dollari al barile. Fin qui, infatti, era stato il Wti a «fare il prezzo». E’ una delle particolarità di questa fase, perché già da qualche settimana il greggio anglo-norvegese resta stabilmente più caro del cugino americano.
La soglia dei 70 dollari non veniva superata dall’agosto scorso, in pieno uragano Katrina che faceva chiudere tutte le piattaforme del Golfo del Messico. Ma è da gennaio che la corsa dell’oro nero non sembra trovare più ostacoli, con un aumento che sfiora il 30%.
Le cause «ufficiali» proposte dagli analisti sono sempre le stesse: le tensioni con l’Iran, la situazione in Iraq e in Nigeria (dove i ribelli sono da mesi all’attacco delle piattaforme nel delta del Niger, con drastica riduzione dell’estrazione), il calo delle scorte di benzina negli Stati uniti proprio alla vigilia della «driving season». Sono spiegazioni vere, ma che non chiariscono molto. E qualcuno comincia anche a dirlo.
Le preoccupazioni per le scorte americane, per esempio, «sono un po’ esagerate dal momento che è in gran parte un risultato della stagione di mantenimento delle raffinerie. Quando le raffinerie terminano il periodo di mantenimento i rifornimenti di benzina possono ricostituirsi e solo allora si potrà analizzare il mercato».
Ma è quando la parola viene presa dai ministri dei principali paesi produttori che si capisce qualcosa di più.
Il ministro del Petrolio del Qatar Abdullah al-Attiyah, alla vigilia di un incontro informale tra i ministri del cartello, ha assicurato che «con la domanda a questi livelli, penso che manterremo la stessa produzione per tutto il 2006». Ma ha anche aggiunto che «sulla produzione non c’è nulla che possiamo fare. Stiamo già al massimo dell’output e non ci sono carenze nelle forniture». Il «massimo dell’output» significa che più di così non si può produrre. La conferma viene, indirettamente, dal ministro indonesiano Maizar Rahman, secondo cui sia Arabia Saudita che Kuwait hanno ancora un margine di capacità inutilizzata. Peccato che questa sovracapacità, riconosciuta, non superi il milione di barili al giorno; molto meno di quanto non crescerà la domanda globale nell’anno in corso.
Che questo sia il vero problema – per di più irrisolvibile – lo dimostra la Gran Bretagna, che da 20 anni è un importante produttore di petrolio, sebbene in irresistibile calo per l’esaurirsi dei giacimenti del Mare del Nord. Tony Blair sta per dare il suo via libera alla costruzione di nuove centrali atomiche nel Regno Unito, mentre il parlamento preferirebbe sviluppare il «carbone pulito» e altre energie alternative. Blair, rispondendo in videoconferenza, ha affermato: «Ho la sensazione che avremo bisogno di entrambe». Le 12 centrali nucleari inglesi, che forniscono in totale il 20% dell’energia elettrica del paese, sono molto vecchie e dovrebbero essere chiuse entro la fine del 2015. Il rapporto della Commissione parlamentare speciale sull’ambiente sostiene che le nuove centrali non saranno pronte fino al 2019, e il governo starebbe perciò mettendo a punto un piano accelerato di approvazione dei parametri per le centrali che ne dovrebbe accorciare i tempi di costruzione. Una fretta pericolosa, come si può intuire.
Tira insomma una brutta aria. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che ogni aumento del 10% nel prezzo del greggio comporta una riduzione della crescita dell’1,5%. Finora la situazione non ha dato segni palesi di rottura perché multinazionali e paesi produttori sono «gonfi di liquidità» e non ricorrono al mercato dei capitali di prestito. Ciò aiuta a tenere bassi i tassi di interesse globali e a contenere, perciò, l’inflazione. Ma i «deficit gemelli» Usa stanno indebolendo la fiducia nel dollaro, e quindi il suo valore. Nessuno osa prevedere le dimensioni della recessione che, a quel punto, si metterebbe in moto. I segni di crisi, però, cominciano a fioccare. Ieri ha fatto record anche l’oro, bene-rifugio per antonomasia: 619 dollari l’oncia (30 grammi), ai massimi da 25 anni. Stesso discorso per l’argento (13,085 dollari), il cui prezzo è salito dell’85% in un solo anno. Ma «non preoccupatevi», ci dicono.