Il boom del social forum

«L’anno scorso ci siamo trovati in Brasile e ci siamo detti che un altro mondo è possibile. Subito dopo, alla Casa Bianca, anche il presidente Bush e i suoi collaboratori si sono detti che un altro mondo è possibile. Il nostro progetto era il Social forum mondiale, il loro era il Nuovo secolo americano». Voce esile, la scrittrice Arundhati Roy si rivolge alla moltitudine raccolta sul Maidan, la spianata centrale del Centro delle esposizioni di Goregaon, Bombay, tanto immensa e gremita che dal palco si vede solo un mare di umani e dal parterre bisogna contentarsi di vedere gli speaker su grandi schermi. Secondo gli organizzatori c’è mezzo milione di persone: certo la densità umana qui supera quella media di Bombay, e per accomodare tutti l’assemblea inaugurale di questo forum è cominciata con parecchie ore di ritardo. A fare gli onori di casa c’è l’artista e attivista Mallika Sarabhai, che presenta una band venuta dal Pakistan: con un caldo «hallo Bombay» i pakistani faranno la colonna sonora della serata. Gli oratori sono illustri: c’è la scrittrice che presta la sua penna alle cause dei contadini della valle di Narmada scacciati dalle grandi dighe. C’è l’avvocata iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, che sembra poco abituata a un tale oceano di folla ma non si scompone: dice che «questo Forum è un simbolo di speranza e di riscossa contro le ineguaglianze e le ingiustizie» e si lancia in una requisitoria contro il patriarcato, «una cultura di diseguaglianza crudele con le donne e in fondo anche con gli uomini». C’è anche l’iracheno Abdul al Rehab, che rappresenta la “Corrente nazionale democratica irachena”: dice che da qui, dalla costa di Bombay, «si possono vedere le portaerei Usa e sentire la vicinanza della guerra».

Quello che Arundhati Roy ha chiamato «nuovo secolo americano» è il concetto guida della serata. Incalza la scrittrice: «I nuovi missionari parlano apertamente di un nuovo imperialismo che porti ordine in un mondo riottoso. Vogliono ordine sacrificando la giustizia, vogliono imporre la dominazione economica ad ogni costo, e sono assecondati dai corporate media: per la prima volta nella storia c’è un solo impero», e noialtri «siamo presi nel fuoco incrociato dei missili cruise e delle politiche del Fmi». Ecco segnati i due termini del discorso di questa nuova edizione del Forum sociale: la guerra e il governo mondiale dell’economia, o il dogma della deregulation. Tra questi due termini sta tutto il resto. Stanno i conflitti basati sulla religione o l’identità («duemila musulmani sono stati massacrati due anni fa in Gujarat, donne violentate e bambini bruciati, mentre la polizia stava a guardare e l’amministrazione non faceva nulla. Anzi, i massimi responsabili sono stati rieletti», rievoca Roy: «Ai nostri democraticamente eletti leader non importa molto: finché corporation come la Enron continuano a fare i loro profitti e il mercato tira, sono disposti a confondere il limite tra fascismo e democrazia»). Stanno anche i disastri umani e sociali di uno sviluppo che beneficia alcune élite e penalizza intere popolazioni rurali («in India solo le dighe hanno fatto 33 milioni di sfollati dal dopoguerra. E quando protestano, la polizia manganella e spara»). Stanno le varie forme di discriminazione basate sulla casta o sull’appartenenza etnica. Sta la limitazione delle libertà personali e collettive, le legislazioni antiterrorismo che permettono arresti sommari, la spirale tra terrorismo e guerra.

In questo «fuoco incrociato» stanno le violazioni dei diritti umani, e «la povertà estrema è un’estrema violazione dei diritti e della dignità umana», dice Shirin Ebadi, da cui discendono e a cui si sommano molte altre: la violazione del diritto a un processo giusto, alla libertà d’espressione, a libere elezioni. Parla della violazione dei diritti dei palestinesi. Delle battaglie per la democrazia ripete ciò che ha detto più volte: «I diritti umani e la democrazia si conquistano dall’interno, non si postano con le armi». Non parla esplicitamente del suo paese, la signora Ebadi, se non quando parla della «discriminazione tra donne e uomini di fronte alla legge»: in Iran, dice, ci sono donne istruite che devono stare da parte perché i posti di rilievo nella società spettano agli uomini; la parola delle donne vale metà di quella degli uomini». Non nomina mai la parola religione, tantomeno islam, ma insiste su «patriarcato»: «E’ una cultura che assegna alle donne un posto inferiore, una cultura di discriminazione: non ci sarà democrazia né libertà in oriente finché non abbatteremo il patriarcato».

Tutto questo sarà articolato, da oggi fino al 21 gennaio, in diverse assemblee plenarie quotidiane, numerosi seminari e una miriade di «eventi» auto-organizzati – a volte semplicemente improvvisati, seminari volanti e performance estemporanee ai crocicchi di questa vecchia fabbrica di macchinari tessili divenuta centro di esposizioni. Chico Whitaker, brasiliano, parla di uno spazio aperto, orizzontale, in cui ciascuno possa avanzare proposte. «Il World social forum è diventato più che un incontro, è un processo»; «è una nuova cultura politica, in cui soggetti e storie diversi entrano in relazione nel rispetto delle differenze»: la sfida, dice è far diventare queste differenze una forza attiva. Lui non lo dice in modo esplicito ma c’è aria di polemica quando i portavoce del comitato organizzativo precisano che il Forum ha ricevuto donazioni da ong internazionali, come l’americana Oxfam: ma gli americani fanno meno del 2% dei finanziamenti. E’ una risposta a distanza al parallelo «forum antimperialista» Mumbai Resistance, che si apre oggi non lontano da qui, e che denuncia la «ong-izzazione dei movimenti sociali».

«Tutti noi, il Forum e Mumbai Resistance, siamo contro l’imperialismo e la dominazione economica neocoloniale», dice Arundhati Roy, «e la guerra in Iraq è il culmine sia dell’imperialismo che della dominazione coloniale». La moltitudine applaude quando Abdul al Rehman aggiunge: «La guerra scatenata dagli Stati uniti non è un incidente ma un’arma politica» per imporre l’egemonia americana sul mondo, e quando evoca «le grandi manifestazioni cominciate l’altro giorno nell’Iraq meridionale contro l’occupazione». Lui propone un grande raduno internazionale in Iraq, per sostenere la resistenza. Arundhati Roy ha un’altra proposta: «non dobbiamo solo sostenere la resistenza contro l’occupazione in Iraq, dobbiamo essere la resistenza irachena». E propone: «Prendiamo due corporations americane che stanno facendo profitti in Iraq, facciamo una bella lista delle loro sedi e dei loro progetti nel mondo, e andiamo a chiuderli».