In un intervento su la Stampa di venerdì, Tito Boeri ha dichiarato che i sostenitori dell’appello per la stabilizzazione del debito pubblico (www. appellodeglieconomisti. com) sono degli «struzzi parlanti» che «mettono la testa sotto la sabbia» e che «vivono in un mondo tutto loro». Ed ha aggiunto che, dopo il monito delle famigerate agenzie di rating, si può forse auspicare che gli struzzi vengano finalmente zittiti.
Boeri ha in seguito cercato di compiere una sbilenca retromarcia in una lettera pubblicata domenica sul medesimo giornale, ma gli epiteti disneyani con i quali egli ha chiaramente apostrofato gli ottanta economisti firmatari dell’appello restano bene impressi in memoria. Da molti l’episodio non è stato ritenuto particolarmente edificante per l’accademia italiana. Il che magari è vero. Tuttavia la deriva faunistica di Boeri può anche essere interpretata come un segnale incoraggiante. In fondo essa indica che un dibattito di politica economica è davvero cominciato, e che la lunga stagione dei predicatori in assenza di contraddittorio inizia forse a volgere al termine. Anziché dunque attardarci sulle innocue invettive di Boeri, sarà bene tentare di sviluppare ulteriormente il dibattito procedendo in base a una precisa sequenza. Chiariremo in primo luogo la funzione delle agenzie di rating. Faremo quindi delle ipotesi sull’impatto che le decisioni delle agenzie possono avere sui tassi d’interesse. Mostreremo infine che, anche in presenza di variazioni plausibili nei tassi, la via delle lacrime e del sangue alla quale Boeri pare così tenacemente affezionato non è affatto obbligata e che la proposta di stabilizzazione del debito può costituire, oggi e in futuro, il benchmark di riferimento per la costruzione di una forte e credibile alternativa di politica economica.
Cominciamo dalle agenzie, il cui affare principale consiste nel “mettere i voti” alla solvibilità dei debiti contratti da imprese, enti e stati sovrani. Si tratta, è bene chiarirlo, di istituzioni dal passato anche glorioso. Il compianto John Kenneth Galbraith teneva a ricordare che, alla vigilia del grande crollo del 1929, la piccola agenzia antesignana di Standard & Poor’s fu tra le poche a segnalare i pericoli di una crisi imminente, quando nel frattempo anche il Wall Street Journal preferiva accodarsi all’incontrollata euforia del mercato. Nell’ultimo ventennio, tuttavia, sulla capacità di previsione delle agenzie sono stati sollevati dubbi crescenti. In un articolo pubblicato con Ferri e Liu, il premio Nobel Joseph Stiglitz ha mostrato che non solo le agenzie non furono in grado di anticipare la crisi asiatica di fine anni Novanta, ma giunsero addirittura ad amplificarne gli effetti. Esse infatti tennero i “voti” ingiustificatamente alti fino allo scoppio della bolla speculativa, per poi cercare di recuperare un po’ della reputazione perduta facendoli piombare ben al di sotto di quanto la situazione oggettiva suggerisse.
E poiché le erogazioni di credito bancario erano vincolate ai ratings delle agenzie, il risultato fu quello di un razionamento della liquidità proprio nel momento in cui le imprese ne avevano maggior bisogno. Insomma, fu un bel disastro.
Del resto, è proprio in merito all’interpretazione della “situazione oggettiva” che le agenzie sembrano prestare maggiormente il fianco alle critiche. Un problema tipico, secondo gli analisti, è che i voti delle agenzie si basano spesso sulla pretesa più o meno esplicita di ricavare gli indici di solvibilità dei debitori da quelli che vengono in gergo definiti i “fondamentali” del sistema economico. Questi “fondamentali” solitamente rinviano ai dati relativi alle preferenze degli agenti economici, alle dotazioni di risorse e alla tecnologia disponibile su cui la teoria neoclassica dominante si fonda. Nei confronti di questa teoria abbiamo in più occasioni avanzato critiche radicali, anche su queste pagine. Qui basterà osservare che la dipendenza dei “voti” delle agenzie dai cosiddetti “fondamentali” finisce per condurre a dei risultati paradossali. Ad esempio, vari studi di agenzia determinano la crescita dei redditi e la relativa solvibilità dei paesi debitori sulla base del tasso di crescita delle loro popolazioni. Ora, che la capacità di svilupparsi e di pagare i debiti venga legata al “tasso di attività” delle puerpere potrà stupire molti lettori. Tuttavia è innegabile che questa bizzarra relazione sia perfettamente in linea con l’impianto di fondo della teoria neoclassica, e in particolare con la tesi ardimentosa secondo cui nel lungo periodo i sistemi economici tenderebbero alla piena occupazione della popolazione lavorativa disponibile. Ma non è finita qui. Diversi studi di agenzia traggono ispirazione dalle versioni cosiddette “volgari” della teoria neoclassica, secondo cui i “fondamentali” su cui si basano i giudizi di solvibilità possono esser calcolati escludendo fenomeni di complementarità tra i vari attori del sistema economico. L’assurda implicazione di questa ipotesi è che ad esempio le agenzie si trovano a valutare il rischio di credito sul debito pubblico tedesco del tutto isolatamente rispetto a quello francese, italiano o spagnolo. Laddove invece si sa bene che in virtù del crescente intreccio di rapporti di debito e credito internazionali, la probabilità di insolvenza di uno stato risulta irriducibilmente connessa a quella degli altri.
Alla debolezza analitica degli studi si aggiunge poi la palese matrice ideologica di alcune più recenti dichiarazioni, come quella rilasciata la scorsa settimana da un responsabile di Standard & Poor’s, secondo il quale la compressione della spesa pubblica in rapporto al Pil costituirebbe di per sé un fattore di efficienza e di stabilizzazione macroeconomica nazionale. Un fantasioso nesso causale, questo, di fronte al quale persino i Chicago boys faticherebbero a nascondere un certo imbarazzo.
Queste sono soltanto alcune delle ragioni che spingono oggi gli osservatori più seri e documentati a prendere i voti delle agenzie con beneficio di inventario, e che inducono il mercato a scommettere spesso e volentieri contro di esse. E’ questa una circostanza che guarda caso si è verificata proprio l’altro giorno: nonostante il declassamento del debito pubblico italiano ad opera di due dei tre principali colossi mondiali del rating, molti operatori hanno deciso di acquistare invece di vendere, con la conseguenza che dopo una brevissima oscillazione il differenziale tra i tassi d’interesse nazionali e quelli medi europei è tornato a livelli prossimi ai minimi storici. Ma la cosa più interessante è un’altra. Ammettiamo pure, infatti, che il giudizio delle agenzie riesca un giorno o l’altro ad influenzare in modo non trascurabile le decisioni di portafoglio degli investitori. E ammettiamo che, sebbene non vi sia alcuna ragione logica perché ciò avvenga, le agenzie considerino la stabilizzazione del debito come un fattore di deterioramento della solvibilità nazionale. In questo caso il problema è di verificare se e in che misura tale influenza possa rendere la politica “lacrime e sangue” di abbattimento del debito più vantaggiosa della politica di stabilizzazione. A questo riguardo un semplice calcolo ci permette di chiarire che, persino ammettendo un aumento dello spread di ben cinquanta punti base, un vantaggio netto in termini di minori avanzi primari scontati potrebbe scaturire dall’abbattimento del debito al fatidico sessanta percento non prima di cinquant’anni! Se poi a questo risultato si aggiunge il fatto che il recente annuncio del declassamento ha comportato una oscillazione di appena tre punti base, si arriva facilmente a comprendere quanta credibilità meriti di esser conferita a coloro i quali si sono impegnati ad agitare in questi giorni lo spauracchio dei ratings (e quanto tempo prezioso ci hanno fatto perdere coloro i quali – anche dalle nostre parti, anche in posizioni di responsabilità – si sono lasciati inizialmente influenzare da simili argomentazioni).
Tutto questo significa che possiamo stare assolutamente tranquilli, e che l’eventualità di una crisi finanziaria debba ritenersi del tutto implausibile? Niente affatto. La critica dei cosiddetti “fondamentali” della teoria neoclassica costituisce in primo luogo una critica alla inefficienza e alla erraticità della finanza capitalistica, e in particolare alla miscela di potere dei “pastori” e di strutturale irrazionalità dei “greggi” su cui spesso il cosiddetto “libero mercato” si basa. Ma la medesima critica chiarisce pure che nell’ambito dell’Unione monetaria europea i rischi di inflazione e svalutazione sono troppo bassi e il mercato finanziario è troppo integrato perché possano emergere differenziali significativi tra i tassi dei vari paesi. A meno ovviamente di una possibilità: una crisi di fiducia generale sulla tenuta politica del progetto di unificazione monetaria. Questa crisi, come è noto, potrebbe essere innescata dal cattivo funzionamento dei meccanismi di riequilibrio interni all’Unione, e in particolare dall’ampliamento degli squilibri commerciali tra paesi. Ma a questo proposito occorre porsi il seguente interrogativo: chi ci dice che l’attuale procedura di riequilibrio garantisca stabilità al sistema? Vale la pena di ricordare che questa procedura è fondata sulla deflazione da salari e da domanda e sulla vendita di capitale all’estero da parte dei paesi in deficit, nonché su una serie di vincoli istituzionali che – venuta meno la minaccia di attacco speculativo sulle valute – dovrebbero provvedere al contenimento delle pressioni antagonistiche provenienti dalle istituzioni rappresentative e dei sindacati. I limiti al deficit e al debito pubblico – nonché i più recenti sotterfugi della Bce, che condiziona le garanzie costituite da titoli pubblici all’andamento dei discutibilissimi ratings di agenzie private e quasi monopoliste – rappresentano degli esempi lampanti in tal senso.
Ora, secondo autorevoli osservatori il meccanismo che abbiamo appena descritto tende a determinare instabilità, polarizzazioni e sperequazioni, e risulta pertanto del tutto incompatibile con quel che resta dei sistemi europei di democrazia politica e sindacale. A meno di voler definitivamente sacrificare questi ultimi, occorre allora ricercare un’alternativa. Per dirla in gergo, occorre un grado di libertà in più. L’appello per la stabilizzazione del debito pubblico e per il reperimento delle risorse necessarie al rilancio produttivo del paese in condizioni di maggiore equità sociale, può esser visto come uno dei numerosi ma ancora scoordinati segnali che per il momento emergono a livello nazionale, ma che di fatto invocano questo grado di libertà soprattutto a livello europeo. Naturalmente si può essere in disaccordo con questa proposta e si può scegliere di difendere l’attuale impianto dell’Unione monetaria nonostante la crisi di consenso in cui esso versa. Tale in fin dei conti è la posizione di Michele Salvati, il quale ha sollecitato e criticato i firmatari dell’appello mettendo in dubbio l’efficacia dell’intervento pubblico sul piano della competitività nazionale e forse, più in generale, su quello dell’aggiustamento degli squilibri e delle polarizzazioni in corso in Europa (CorrierEconomia, 25 settembre). Salvati si è finora limitato solo ad un accenno critico, ovviamente insufficiente rispetto all’enormità della questione sollevata. Tuttavia è proprio da quello spunto che bisognerà riavviare il dibattito. Dalla sua immaginifica savana Boeri magari ci osserverà un po’ distratto, ma noi tutti confidiamo nella possibilità che prima o poi esca fuori da “cartoonia” e se la senta di riprendere le fila di un discorso scientifico.