I60 e passa morti finora attribuiti al farmaco Lipobay sono solo la punta dell’iceberg. Passano sotto silenzio le innumerevoli vittime che ogni anno miete la sorda guerra sotterranea tra le grandi case farmaceutiche. Una guerra per il dominio della salute mondiale, in prospettiva il mercato più appetibile della terra.
In tutto il globo, la spesa planetaria di farmaci ammonta a 363 miliardi di dollari (circa 800.000 miliardi di lire), di cui il 70% tra Europa e Stati uniti, il 40% (circa 140 miliardi di dollari, ovvero 300.000 miliardi di lire) nei soli Usa che sono così il più grande consumatore mondiale di medicine (più di un milione di lire a testa ogni anno).
Il settore farmaceutico è uno dei pochi mercati non saturi nei paesi ricchi: per esempio, il mercato automobilistico è ormai maturo, poiché in tutte le economie industrializzate vi è ormai un’auto ogni due abitanti circa; il mercato degli elettrodomestici, dei computer e dei telefonini si avviano a essere alimentati solo dal ricambio. Quello farmaceutico è invece in ascesa rapidissima. Solo negli Usa la spesa per i farmaci si è moltiplicata per sette in vent’anni, dai 22 ai 140 miliardi di dollari (vedi grafico). Infatti la spesa sanitaria è quella che più cresce insieme al benessere di un paese: le persone più agiate spendono di più per la salute (in farmaci, medici, cliniche). Non solo: ogni anno in più conquistato nella speranza di vita media della popolazione allunga solo dell’1,3% il nostro soggiorno su questa terra, ma fa crescere esponenzialmente il consumo dei farmaci, perché sono proprio quei giorni, quei mesi in più strappati alla morte che richiedono un altissimo tenore medicinale. Questo spiega gli enormi investimenti nel campo delle malattie della vecchiaia.
La torta medicinale è quindi non solo spropositata, ma si dilata a ritmo fulmineo: è il “Grande Bang” farmaceutico. A contendersela sono pochi grandi gruppi, cinque anglosassoni, tre in Europa. Familiarmente noti come Big Pharma, si spartiscono da soli la metà del bottino di 363 miliardi di dollari. Ecco i gruppi, per fatturato nel 2000: Merck, 40 miliardi di dollari ($); Pfizer, 29,6 miliardi di $; GlaxoSmithKline, 27,5 miliardi di $; Aventis, 29 miliardi di euro; Novartis, 29 miliardi di franchi svizzeri (Chf); Roche, 28 miliardi di Chf; AstraZeneca, 15,8 miliardi di $; Eli Lilly, 10,8 miliardi di $. Rispetto a questi colossi, con i suoi soli 6 miliardi di euro di fatturato, la divisione farmaceutica della Bayer è un concorrente minore, anche se poi fa parte di un colosso chimico, la Bayer Ag, le cui dimensioni totali equivalgono quelle degli altri gruppi farmaceutici.
I medicinali sono quindi oggi soggetti a un oligopolio molto più ferreo di dieci anni fa. Da allora si sono susseguite le fusioni del settore. Uno dei più costosi acquisti è stato quello con cui la Glaxowelcome (inglese) ha comprato la Smithkline per 84 miliardi di euro (oltre 160.000 miliardi di lire). Nel ’96 vedeva la luce Novartis, dalla fusione dei colossi svizzeri Sandoz e Ciba-Geigy (già il risultato della fusione tra Ciba e Geigy). Mentre nel 1999 nasceva Aventis – unione della tedesca Hoechst e dalla francese Rhone-Poulenc (comprata per 23 miliardi di euro) – mentre l’anno scorso Pfizer si mangiava Werner-Lambert per 15 miliardi di dollari. Senza contare gli acquisti al dettaglio di imprese minori: per esempio la svizzera Roche si è comprata nel 1990 la Gentech, nel 1991 Nicholas, nel 1994 Syntex, nel 1998 Boehringer Manheim. In queste operazioni di capitale consiste la vera globalizzazione, quella che più influisce sulle nostre vite e che sfugge quasi totalmente alla nostra attenzione.
La caratteristica del mercato farmaceutico è di trarre immani profitti da un numero ristrettissimo di farmaci, e per un periodo limitato di tempo: da questo punto di vista, curiosamente, Big Pharma somiglia allo Show Business o all’editoria che fanno soldi con pochissimi successi di botteghino o best-seller con cui poi finanziano gli altri prodotti: se visitate i siti web, il dato più enfatizzato è quanti medicinali in portafoglio fatturano più di un miliardo di euro, di dollari o di franchi svizzeri. L’anno scorso un ottavo degli incassi totali – cioè 5 miliardi di dollari su 40 – è venuto alla Pfizer dall’anticolesterolo Liptor (il più venduto nel mondo, concorrente più forte del Lipobay che ha fatto solo 570 milioni di dollari, 1.300 miliardi di lire); un quarto del fatturato di Eli Lilly riguarda il solo Prozac, il medicinale antidepressivo; ancor più stupefacente il caso di AstraZeneca il cui fatturato dipende al 40% (cioè 6 miliardi di dollari su 16) da un solo prodotto, il Prilosec contro l’acidità di stomaco. Il 41% della spesa farmaceutica negli Usa è su dieci medicinali.
Ma le Big Pharma sono vulnerabilissime quando scade un brevetto o se cambia la legislazione. Ad agosto è scaduto il brevetto che Eli Lilly deteneva sul Prozac: nella prima settimana dopo la scadenza, l’80% dei pazienti hanno smesso di comprare Prozac e hanno acquistato più economici preparati “generici” dei concorrenti come la Merck: stessa composizione, ma senza marchio. Uguale destino aspetta la Merck cui è scaduto il brevetto sul Taxol (per la terapia dei tumori) e sta per scadere (in gennaio) il Mevacor, anticolesterolo. All’AstraZeneca è già scaduto il Tamoxifen (tumori) e sta per scadere il Prilosec.
Così le case sono impegnate su un triplice fronte: 1) accelerare al massimo la messa in circolazione dei propri farmaci per battere i cocorrenti; perciò devono ottenere al più presto l’approvazione della Food and Drug admninistration Usa che apre il 40% del mercato mondiale. In questi anni è stata esercitata un’enorme pressione per rendere più “snelli”, cioè più superficiali, gli esami clinici preventivi. Mentre infuria il caso Lipobay, Wall Street Journal e Financial Times scoprono che prodotti anti-artrite favoriscono gli attacchi di cuore. Secondo il Journal of American Medical Association, i pazienti che prendono il Vioxx (della Merck) e il Celebrex (della Pharmacia, co-distribuito da Pfizer) hanno una frequenza doppia di attacchi cardiaci rispetto a chi prendeva i vecchi antiartritici. Si è anche scoperto che il Celebrex non ha poi il tanto decantato effetto anti-ulcera, semplicemente perché Pharmacia non ha pubblicato metà dei risultati dei suoi studi. E pensare che Vioxx e Celebrex vendono da soli per 6 miliardi di dollari l’anno. Grazie al Lipobay, si scopre ora che anche gli altri farmaci anticolesterolo basati sulle statine hanno effetti collaterali pesanti – come ha già ripetuto sul manifesto Gianni Tognoni.
2) Per massimizzare i profitti e le vendite nei 20 anni in cui sono coperte dal brevetto, si fa ricorso a massicce campagne pubblicitarie, dirette e indirette: dal ’97 negli Usa si può pubblicizzare un farmaco senza accennare agli effetti collaterali. Così Pharmacia ha venduto più di un miliardo di dollari del Celebrex, ancor prima che fossero stati pubblicati i testi clinici. I dottori si erano affrettati a prescriverlo: la pubblicità presso i medici è una delle armi più affilate di Big Pharma; spesso è corruzione indiretta, sponsorizzazione di convegni medici in luoghi esotiche, o fornitura di apparecchiature. E’ così che “solo il 6% della gente che prende il Celebrex (costo annuale 900 dollari, quasi 2 milioni di lire) ne ha veramente bisogno. Per il resto, una cura di Ibuprofen, 24 dollari l’anno, fa altrettanto bene” ha detto all’Economist il dirigente della Blue Cross.
E’ in nome del profitto che il trattamento dell’Aids basato su un cocktail di vari medicinali, viene a costare 15.000 dollari all’anno. La Big Pharma si giustificano con le alte spese di ricerca, ma basta un esame più accurato per capire che l’argomento non tiene: se si calcola quanto costa materialmente produrre un chilo di un dato farmaco rivenduto in milligrammi, si osserva che quel che costa un dollaro è venduto a 100.000, a volte anche un milione di dollari. Se però poi si analizza la struttura dei bilanci, si vede che l’ammortamento della ricerca è già incluso negli oneri, quindi la ricerca viene contata due volte.
Quando poi il brevetto sta per scadere, la casa farmaceutica s’ingegna di commercializzare un successore del suo vecchio successo (un po’ come fa Microsoft con i suoi Windows, sostanzialmente uguali ma sempre più infiocchettati). Così AstraZeneca commercializza sia Prilsec, sia il successore Nexium, col fascinoso nome di purple pill, pillola porpora. E Lilly propaganda il Sarafem come “il solo trattamento approvato dal ricettario per il Pmdd”, il Premenstrual Dysphoric Disorder, cioè la sindrome premestruale: la pubblcità tv del Safarem mostra una signora che schiaffeggia il marito e suggerisce il rimedio; ma il Sarafem non è altro che Prozac con un altro nome, ora che il Prozac è fuori brevetto.
Si capisce così come mai nell’Uruguay round del 1994, le Big Pharma premessero tanto per rendere più ferrea la protezione sui brevetti, e riuscissero a far includere i medicinali tra i prodotti brevettabili (fino ad allora 50 paesi sottosviluppati, tra cui l’India, avevano escluso i farmaci dall’area brevetti). Così oggi milioni di persone nel mondo muoiono di Adis con decenni di anticipo a causa dell’accordo sui Trips (Trade Related Intellectual Property Rights). E’ su questo terreno che Big Pharma ha subito ad aprile di quest’anno la più grande sconfitta dal dopoguerra: ha dovuto ritirare la causa intentata contro il governo del Sudafrica che aveva deciso di produrre una versione a buon mercato dei carissimi cocktail anti Aids. Lo stesso braccio di ferro oppone proprio oggi la svizzera Roche e il governo del Brasile che vuole imitare il Sudafrica: produrre la sua versione del Viracept, il farmaco Roche anti Aids. La Roche ha fatto causa: dice che ha già scontato il trattamento da 15.000 a 4.000 dollari annui, e che ne ha donato migliaia di confezioni per curare gratis i bambini. Ma il Brasile va avanti. Paradossalmente, gli altri farmaceutici temono non tanto il governo di Brasilia, quanto la miope aggressività della Roche.
Non stupisce perciò che la lotta fra queste mega corporations si combatta all’ultimo sangue, all’ultimo test. Sono in ballo miliardi di dollari per la singola confezione. E’ noto che le multinazionali si battono spesso a colpi di “studi indipendenti”. I tedeschi hanno già accusato un professore americano, che aveva condotto studi critici su un precedente prodotto della Bayer, di essere stato finanziato dalla Merck, una ditta concorrente. Si è così fatta largo nell’opinione pubblica tedesca l’idea, avvallata dall’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung, che l’attacco sul Lipobay sia dovuto a una guerra commerciale tra Pfizer (produttrice del Liptor) e Bayer: la casa tedesca sta infatti per immettere sul mercato la sua versione concorente al Viagra della Pfizer, il Vardenafil (in tedesco “Potenzmittel”). I tedeschi sottolineano che la Fda ha contato alla fine dell’anno scorso 983 morti collegati all’uso del Viagra (lanciato nel 1998), ma che nessuno ha sollevato il tornado che ha sconvolto la Bayer per il Lipobay. E’ probabile che sul silenzio attorno al Viagra pesi il pudore che di solito avvolge quella che i francesi chiamano la douce mort, e cioè l’andarsene facendo all’amore. Ma nell’insinuazione tedesca c’è una parte di verità: basta guardare la nazionalità delle Big Pharma. Cinque sono anglosassoni (Lilly, Glaxo, Pfizer, Merck, Astra), e quattro nell’area germanica (Aventis, Novartis, Roche, Bayer). La Germania è stata fatta fuori in alcuni campi nevralgici dell’innovazione, come l’informatica. Gli resta il settore chimico-farmaceutico. Fosse sconfitta in questo campo verrebbe retrocessa nell’area del capitalismo arretrato. Così sembra giustificata la tesi di Leo Welt, direttore del German American Business Council: “Dalla fine della Guerra Fredda la concorrenza economica tra imprese americane e tedesche si è inasprita e – dato che non c’è più un nemico comune – anche le relazioni tedesco-americane stanno peggiorando”.