Il berlusconismo e la cultura del quotidiano

Ha perfettamente ragione Marco Revelli (manifesto del 3 maggio) quando afferma che «Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l’ha sdoganata». Sono perfettamente d’accordo e vorrei che tutti se ne rendessero conto. Un anno e mezzo fa, sul manifesto, avevo scritto che la «cultura del quotidiano» condivisa da molti e molti decenni da una parte molto estesa di questo nostro paese «si nutre di un egoismo individualista o di gruppo che mira a promuovere innanzitutto i propri interessi immediati a scapito di qualsiasi altra istanza, che guarda all'”altro da sé” – in particolare se straniero – come a una permanente minaccia, e concepisce quindi la «competizione» come una guerra – anche una guerra nel senso proprio della parola.
Una cultura che rispetta innanzitutto il denaro e cerca di «tenersi buono» chi ne dispone ampiamente. Una cultura che intende la solidarietà come «beneficenza» e a patto che i «beneficiati» continuino a lasciarsi sfruttare senza fiatare oppure imparino a farsi furbi». E concludevo che sarebbe fondamentale «considerare questa questione essenziale nella battaglia per rovesciare non solo Berlusconi ma il berlusconismo che tuttora rischia di imporsi stabilmente e di avvelenare per lungo tempo ancora la mente e i comportamenti di questo paese».
In questi mesi, mi pare, questa visione delle cose si è fatta strada. Perfino Marco Follini ha detto in tv che Berlusconi «ha parlato alla pancia degli italiani» e ha auspicato che ci si rivolga invece «al cuore e al cervello» della gente. Ora siamo al dunque. Non perché il governo Prodi e la sua risicata maggioranza possano rovesciare questa «cultura del quotidiano» – e il suo fondamento sociale – nello spazio di un mattino o anche dei famosi primi cento giorni. La battaglia si prospetta di lunga lena. Sarebbe innanzitutto importante chiarire cosa significhi che il nuovo governo deve andare incontro ai «delusi» da Berlusconi, come qualcuno sostiene. E’ vero, Berlusconi non ha attuato molte cose di quelle che aveva promesso. Ma l’interrogativo è: quel che aveva promesso andava effettivamente nel senso di una trasformazione di questo paese fondata sulla giustizia sociale e sull’affermazione degli ideali che ispirarono la parte più avanzata della nostra Costituzione o andava in senso esattamente contrario?
La tentazione di compiacere a tutti i costi l’«altra parte» degli italiani e non di cercare, invece, di costruire le condizioni per un paese più giusto e libero – dalle mafie, dalle prevaricazioni, dai privilegi, dagli egoismi in difesa dei propri immediati interessi – sembra allignare anche in una parte non trascurabile del centrosinistra. E questo è molto pericoloso: può addirittura portare a coltivare il terreno del berlusconismo al di là di Berlusconi. Certo, ascoltare i desideri e le richieste della «gente comune» è non soltanto corretto, ma indispensabile. Ma, come ha giustamente scritto Rossana Rossanda, questo non significa che sia poi altrettanto giusto rispondere positivamente in ogni caso a questi desideri e a queste richieste – in particolare quando questi desideri e queste richieste sono fortemente intrisi di egoismo, di corporativismo, di invidia per i «furbetti».
Inutile rilevare che, se si adotta la prospettiva di una profonda riforma del cosiddetto «sistema paese» in una prospettiva non opportunistica e non del giorno per giorno, il compito – soprattutto considerata l’esile maggioranza di cui si dispone – è davvero titanico. Certo, il risultato elettorale dice che il paese è spaccato in due. Ma, intanto, ci sono in questo stesso paese associazioni e movimenti, migliaia e migliaia di giovani e anziani, milioni di lavoratori disposti – e lo dimostrano ogni giorno – a battersi pervicacemente per una svolta effettiva. Non si dice che si debba procedere come a bordo di un’escavatrice: il compromesso, si sa, è un’arte da praticare con saggezza in politica e nel governo in particolare. Ma due cose, mi pare, sono fondamentali. Che si proceda sempre e comunque nella direzione di una profonda riforma che porti al riscatto sociale degli oppressi e degli sfruttati e si nutra dell’aspirazione alla libertà dal dominio e al bene comune. E che si metta in campo, contemporaneamente, una battaglia costante per diffondere una «cultura del quotidiano» che scalzi nel paese quel che il berlusconismo ha portato alla luce e, come dice Revelli, ha sdoganato.
Sarebbe una scommessa epocale, è vero, viste anche le antiche radici di quella mentalità in Italia. Ma possiamo almeno sperare che questo secolo ventunesimo sia un’epoca realmente nuova e lavorare per questo? Possiamo pensarlo? Vincere è molto importante, ma altrettanto importante è combattere per qualcosa che vale la battaglia. O no?
Si tratta soltanto di un’utopia, come molti affermano con un sorriso sarcastico? Lasciatemi fare soltanto una piccola riflessione augurale.
Anche quando un gruppetto di compagni, trent’anni fa, decise di provare a varare questo giornale sul quale sto scrivendo quasi tutti pensavano che fosse un’utopia. Eppure eccolo qua il manifesto, qua e addirittura in progress, incoraggiato da consensi e auguri. Capisco: riformare un paese è parecchio più difficile e faticoso che fondare un giornale… Ma è anche vero che il «realismo» di cui tanto si discetta equivale, tanto spesso, alla rinuncia senza se e senza ma.