Dalle stelle (e strisce) alle stalle. La splendida carriera di Khalid bin Mahfouz si è drasticamente fermata nelle ovattate stanze di un ospedale militare saudita, più di un anno fa. Agli arresti domiciliari, a Taef, “per volontà delle autorità americane”. Prima di fermarsi a questa per lui inconsueta stazione, era arrivato, nella classifica della rivista Forbes, al 125 posto tra gli uomini più ricchi del mondo. Una figura che riassume da sola la storia dei travagliati rapporti tra il mondo politico-finanziario americano e i detentori dei “petrodollari” (cfr. Intelligence Online, 2000).
Era proprietario della National Commerce Bank dell’Arabia Saudita, la più grande banca privata del mondo posseduta da un privato. Ma soprattutto era il banchiere della famigia reale saudita. Un vero astronauta della globalizzazione finanziaria, al centro del flusso dei dollari che arrivavano nel Golfo in cambio del petrolio e che tornavano in occidente – negli Stati uniti soprattutto – sotto forma di investimenti. Un vortice gigantesco e senza apparente fine, da cui centrifugavano schegge di capitale per scopi diversi. Schegge che sono comunque cifre da capogiro. Tra l’86 e il ’90 una di queste schegge lo portò ad essere azionista di riferimento, col 20%, della Bcci, negli Usa. Era nel board della banca insieme a Gaith Pharaon, al pakistano Abedi, allo sceicco del Bahrein, Khalifa; aveva come proprio referente nel mondo finanziario americano Jack Stephens, uno del “club dei 100” (quelli che avevano contribuito all’elezione di Bush padre alla presidenza con 100.000 dollari a testa, cfr. New York Times, 6 dic. ’91). Un prudente investitore dell’Arkansas, che intanto contribuiva anche alla carriera di Clinton. Anni d’oro, in cui la banca riciclava denaro per i cartelli della droga colombiani, per il traffico d’eroina prodotta in Afghanistan e gestito direttamente dalla Cia per finanziare Contras e mujaeddin anti-sovietici senza passare sotto il controllo del Congresso americano.
Una di queste schegge, al contrario, lo ha portato ad essere una delle principali fonti di finanziamento di Blessed Relief e altre Ong musulmane, accusate di “girare” denaro direttamente a Osama bin Laden. Nel consiglio d’amministrazione di Blessed Relief, per sfortuna, siede suo figlio Abdul Rahman, sospettato d’aver partecipato a un fallito attentato al presidente egiziano Mubarak. Sua moglie, a completare la disgrazia, è una delle tante sorelle di Osama.
Eppure tutto era cominciato bene, in America. Nel ’78 il suo socio, Salem bin Laden, aveva assunto come prestanome per il mercato statunitense James Bath, uno degli amici intimi di Bush junior e agente della Cia con lo specifico compito di “stabilire un legame più efficace con l’Arabia saudita”. Agli ordini di George Bush padre, nominato due anni prima direttore dell'”agenzia”. Bin Laden e bin Mahfouz, secondo le accuse mosse loro in un secondo tempo, cercavano invece gli investimenti giusti per “condizionare la politica americana”. Chi strumentalizza chi? Gli eventi dei venti anni successivi non lasciano molto spazio alle interpretazioni.
Bath gli aveva in effetti procurato i primi investimenti. Nell’Arbusto Energy di George W. Bush (Daily Mail del 24 settembre, “Bin Laden’s family links to Bush”, di Peter Allen), insieme a Salem bin Laden. Poca roba, 50.000 dollari, tanto per fare un regalo alla “famiglia” che lanciava negli affari il primogenito. Più consistente, invece, la cifra per l’acquisto dello Houston Gulf Airport, che finì completamente nelle sue mani quando il suo socio Salem morì in un incidente aereo in Texas, nell’88. Nell’87 dà mandato al suo rappresentante ufficiale negli Usa, Abdullah Taha Bakhsh, di acquistare il 17% della Harken Energy, di cui George W. Bush è azionista, consulente, amministratore. Un’azienda petrolifera piccola, con un disperato bisogno di soldi e commesse. Bin Mahfouz porta gli uni (anche Jack Stephens contribuisce con 25 milioni di dollari) e le altre. Qualche tempo dopo lo sceicco Khalifa – altro consigliere della Bcci – in qualità di ministro del Bahrein affida proprio alla Harken il compito di effettuare trivellazioni nel proprio mare. Una “fortuna eccezionale”, che spinge il valore della Harken a oscillare tra 4 e 5 dollari per azione. Ma proprio a quel punto qualcosa si rompe.
Il 20 giugno del ’90 George W. vende la sua partecipazione nella Harken a 4 $ per azione, mettendosi in tasca quasi un milione di dollari. Otto giorni dopo vengono pubblicati i risultati economici del secondo trimestre: la Harken dichiara perdite per 23 milioni di dollari e il valore delle azioni cade a 1. L’uscita di Bush dalla società è stata di un tempismo davvero eccezionale. Frutto di un fiuto innato per gli affari o di un insider trading da paura? La Sec (la Consob americana) apre un’inchiesta (Micah Morison, Wall Street Journal, 27-9-’99). Il sospetto economico è che, da consigliere, conoscesse benissimo la situazione fallimentare della società e abbia, fuggendo, “fregato” i soci e il mercato. Quello politico è che, da figlio del presidente, fosse informato dell’ormai imminente invasione del Kuwait e della conseguente crisi del mercato petrolifero. Bush fu naturalmente assolto, nonostante i malumori del Wsj per la palese violazione delle regole di mercato. Il buon bin Mahfouz, negli stessi giorni, vedeva crollare la Bcci sotto i colpi dello scandalo (oltre 10 miliardi di dollari di perdite). I Bush – presidente e figlio – scomparvero, mentre lui pagava danni e multe, chiudeva le attività negli Stati uniti e se ne tornava a casa. Con una cittadinanza irlandese e, probabilmente, qualche dente avvelenato. Come molti, negli ultimi tempi, in Arabia saudita.