Al-Fatah è una parola araba che vuol dire «la conquista», ma è anche l’acronimo rovesciato di Harakat al-Tahrir (al-Watani) al-Filastini (Movimento di Liberazione Nazionale della Palestina). È un’organizzazione politico-militare nazionalista fondata nel 1959 da Yasser Arafat. La storia politica della Palestina è intimamente legata a quella di questo partito che nel 1969 aderì all’OLP, di cui divenne la forza politica principale. Dopo la prima Intifada, Fatah lavorò per avviare delle trattative con Israele che portarono al processo di Oslo, da cui nacque l’Autorità Palestinese su parte dei Territori Occupati. Dopo il fallimento di Oslo, Fatah ha subìto un’emorragia di consensi ed una forte frantumazione interna che le ha fatto perdere il suo ruolo egemonico a favore di Hamas. Il sesto congresso di Fatah, svoltosi al 4 agosto scorso a Betlemme, è stato un evento lungamente atteso dai militanti sia in patria che all’estero e che arriva a 20 anni da quello precedente, organizzato in Tunisia. È stato il primo senza Yasser Arafat e quello dopo il fallimento degli accordi di Oslo e la vittoria di Hamas alle elezioni.
Il congresso ha rappresentato anche un’occasione per tantissimi palestinesi della diaspora a rientrare in patria dopo anni di esilio, grazie all’accordo che l’Anp ha fatto con Israele e che ha così permesso il rientro di palestinesi, in via del tutto eccezionale, per poter partecipare ai lavori del congresso. Molti tra gli avversari di Mahmud Abbas (Abu Mazen) avevano chiesto che la sede fosse la Giordania, per sottrarsi al controllo israeliano che invece ha consentito, salvo alcuni casi estremamente limitati, ai delegati che provenivano dall’esterno il rientro, anche se molti tra essi erano imputati per atti di terrorismo ed omicidio. Al congresso non hanno invece potuto partecipare i 400 delegati di Gaza che all’ultimo momento Hamas ha bloccato chiedendo che in cambio venissero rilasciati i circa 900 prigionieri dell’organizzazione islamica detenuti nelle carceri della Anp. I delegati di Gaza hanno finito per votare per telefono e per e-mail ed il congresso è andato avanti lo stesso. L’andamento di quest’ultimo è stato fortemente segnato fin dal principio, in virtù dei meccanismi decisionali di al-Fatah che hanno permesso ad Abu Mazen di scegliere direttamente i delegati. Questi poi sarebbero dovuti essere 600 ma, dopo pressioni e richieste da più fronti, sono diventati 2300. Solo il 30% dei delegati sono stati regolarmente eletti nei rispettivi distretti, mentre tutti gli altri sono stati nominati direttamente dal presidente.
I punti salienti del congresso si possono riassumere come segue:
1 – Abu Mazen ne è uscito rafforzato nella sua leadership: rieletto praticamente all’unanimità presidente di al-Fatah è riuscito ad evitare divisioni e frammentazioni del partito e a rinnovare profondamente gli organismi dirigenti. Come si è visto, tutto questo ha permesso ad Abu Mazen di chiudere il congresso su una linea politica da lui auspicata, ma non ha evitato la progressiva perdita di leadership in ambito internazionale. Pochi mesi dopo il congresso, infatti, già circolavano voci di sue dimissioni e di una sua non candidatura per le prossime presidenziali, a causa dello stallo dei negoziati con Israele, l’allargamento continuo degli insediamenti ed il totale disinteresse di Obama alle questioni poste dall’Anp.
2 – Nel documento finale del congresso si punta infatti alla costituzione dello stato palestinese entro i confini del ’67 (soluzione dei “due stati”), a sostenere in ogni modo lo sviluppo dell’economia capitalistica della Cisgiordania e si fa esplicito riferimento anche alla lotta armata. Il tutto dentro il quadro strategico che ha caratterizzato la politica della leadership palestinese del dopo Oslo, ossia la ripresa dei negoziati con Israele, il coinvolgimento ed il supporto di Ue, Usa e Paesi Arabi affinché facciano pressioni su Israele e convincano lo Stato ebraico a fermare l’espansione degli insediamenti. Una linea quindi di grande accortezza diplomatica per non fornire ad Israele nessuna scusa a non concludere accordi. La pace con Israele è quindi la prima scelta, la lotta armata una possibile necessità. “Il nostro impegno è per la pace con Israele, ma ci riserviamo il diritto alla resistenza prevista dalle leggi internazionali” ha detto Abbas all’apertura dei lavori congressuali. Alcuni mesi dopo il congresso (novembre 2009) il carismatico Marwan Borghouti, ha fatto sapere dai suoi avvocati che era giunto il momento di lanciare una terza Intifada, capace di unire tutti i palestinese e che, a differenziava dalla seconda, doveva avere caratteristiche non violente e di partecipazione popolare. In questo contesto, Barghouti dà una sterzata alla politica di Fatah, dichiarando: «scommettere solo sui negoziati non è mai stata la nostra scelta. Io ho sempre suggerito un insieme costruttivo di negoziati, resistenza e attività politica, diplomatica e popolare» (l’Unità – 22/11/2009). Sugli altri punti cardine della questione palestinese, si sono usate parole moderate, a partire dall’importantissima e delicata questione dei rifugiati, per cui si auspica una soluzione “equa e concordata”, sulla linea del Piano arabo di pace del 2002. Alla richiesta del blocco totale degli insediamenti israeliani si vincola la ripresa delle trattative con Israele e, per quanto riguarda Gerusalemme, se ne rivendica la sovranità palestinese, senza fare distinzione tra zona Est ed Ovest, in linea con la rivendicazione della controparte Netanyahu che parla di Gerusalemme come capitale unica ed indivisibile dello Stato di Israele.
3 – Al congresso è stato profondamente rinnovato il Comitato Centrale di Fatah. Composto da 23 membri (19 eletti dal congresso e tre cooptati dal presidente in carica), ha visto una votazione tra 96 candidati, ed è caratterizzato da un delicato equilibrio di forze diverse, in alcuni casi addirittura in forte contrasto tra loro. Le principali sono: la “corrente diplomatica” (Saeb Erekat, Nabil Sha’th, Nasser el Sheikh), la “corrente collaborazionista” (Toufic Tirawi, Mohammed Dahlan, Jibril Rajoub, Hussein el Sheikh), la “corrente nazionalista” (Marwan Barghouti, Mahmoud Aloul, Mohammed al Madani) ed infine la “vecchia guardia” (Salim Za’noun, Abu Maher Ghneim, Tayyeb Abdel Rahim). Col termine “collaborazionista” qui non si intende un giudizio morale o di valore, quanto la descrizione della politica propugnata dai suoi esponenti che vede una copiosa collaborazione con gli Stati Uniti e un serrato dialogo con gli occupanti israeliani. A riprova di quanto detto è bene ricordare infatti che ufficiali americani coordinati del generale Keith Dayton hanno addestrato 2000 uomini della milizia di Mohammed Dahlan, e che altri 2000 siano in corso di reclutamento in attesa di essere inviati negli Stati Uniti per l’addestramento. Ed è altresì palese che Israele nutra la speranza che Dahlan riesca a strappare militarmente il controllo della Striscia ad Hamas. Tutte queste componenti sono in aperta competizione tra di loro per giungere ad influenzare Abu Mazen, che continua a tenere le fila appoggiato da Salam Fayyad, che non è nemmeno di al-Fatah (è stato uno dei fondatori de La Terza Via, un piccolo partito politico palestinese di tendenza centrista, il cui obiettivo è quello di spezzare il duopolio generato dalla competizione tra Hamas e Fatah) e che è piuttosto immune dai conflitti interni al partito.
4 – È interessante notare chi è stato confermato e chi escluso dai nuovi organismi dirigenti, per capire attraverso questa via come è cambiata al rete del potere interno al partito. Da molti questo congresso è stato visto come una resa dei conti interna tra la vecchia guardia ed i giovani (i cinquantenni), anche perché solo quattro dei dieci “vecchi” legati ad Arafat, sono stati riconfermati. Tra questi troviamo Mohammad Ghneim (Abu Maher), fondatore di al-Fatah appartiene all’ala dura del partito: ha rifiutato gli accordi di Oslo ed è rimasto a lungo fuori dalla Cisgiordania per polemica. Da alcuni osservatori è stato visto come uomo vicino al Presidente, anche perché Abbas durante il congresso lo ha nominato suo successore. Questa cosa è assolutamente irrealizzabile (Abu Maher ha 72 anni) e molto probabilmente la mossa di Abu Mazen aveva la duplice valenza di legarsi simbolicamente ad una figura che gode di grande popolarità (Ghneim è stato il candidato più votato dai delegati) e tamponare la scalata dei leader più giovani. Oltre a lui sono stati confermati anche Salim Za’noun, Tayyeb Abdel Rahim e Nabil Sha’th (redattore del documento politico approvato).
Tra gli esclusi, spiccano due nomi sopra gli altri: quello di Ahmad Qurei e Farouk Kaddumi. Il primo, più conosciuto come Abu Ala, è stato Primo Ministro dell’Anp dal 2003 (succedendo ad Abu Mazen) alla vittoria di Hamas del 2006. Considerato esponente “pragmatico” di Fatah, è stato tra i protagonisti dei negoziati segreti che nel 1993 a Oslo portarono alla conclusione delle intese israelo-palestinesi, base del successivo processo di pace. Kaddoumi invece è esponente dell’area intransigente, avendo rifiutato l’accordo di Oslo ed essendo rimasto polemicamente a Tunisi in tutti questi anni. Entrambi hanno attaccato pesantemente Mahmud Abbas di brogli durante il voto (circostanza questa riferita anche da altri esponenti) e, se Qurei ha detto che i brogli fatti durante le elezioni presidenziali in Iran erano nulla a confronto di quelli orditi da Abu Mazen, Kaddoumi ha accusato il rais di aver giocato un ruolo nella morte di Yasser Arafat. Tra gli sconfitti, bisogna annoverare anche i membri del partito di Gaza, le donne e gli esiliati. Forti proteste sono infatti giunte dal settore femminile del partito a causa di una assenza totale di una loro rappresentate nel Comitato Centrale. Critica accresciuta dal confronto con Hamas che, solitamente descritto come un movimento di integralisti e maschilisti, vede invece una presenza ed un ruolo attivo delle donne, come si è infatti visto nella breve esperienza del governo Haniyeh del 2006, dove fu inserita una donna nella squadra dei ministri. Va inoltre sottolineato come solo tre membri del partito siano di Gaza: Nabil Sha’th, Nasser el Qidwa e Mohammed Dahlan. Nessuno di loro gode del supporto popolare nella Striscia: i primi due del resto hanno sempre vissuto altrove, mentre il terzo vive nella West Bank dal 2007. Infine l’assenza nel comitato centrale di rifugiati residenti all’estero rafforza l’immagine dell’OLP come di un’organizzazione non connessa con gli esiliati (che rimangono esiliati anche politicamente), quindi non legata al popolo palestinese nel suo complesso.
Tra i nuovi ingressi spiccano i rappresentanti dell’ala più moderata dal partito come Jamal Mouheisen, governatore di Nablus; Afif Safeya, ex ambasciatore dell’Olp negli Usa e Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat. Molto più discussi invece gli ingressi di tre uomini molto vicini al presidente Abu Mazen e che sono: Muhammad Dahlan, Jibril Rajoub e Tawfiq al-Tirawi. Sul primo abbiamo già detto dei rapporti militari con gli Stati Uniti (stando ai media israeliani è stato l’unico politico palestinese, oltre ad Arafat, ad avere ottenuto un incontro privato con l’ex presidente americano Bill Clinton), a cui si aggiungono le accuse da più parti di corruzione. Viene considerato dai più la vera anima nera che controlla e gestisce il contrabbando (in particolare di droga) attraverso i tunnel sotterranei tra la Striscia di Gaza ed il valico di Rafah. Il suo acerrimo nemico Rajoub lo accusa addirittura di essere “contiguo” agli israeliani anche perché, per sua stessa ammissione, durante i colloqui di pace di Camp David nell’estate del 2000, era «uno di quelli che hanno combattuto duramente per raggiungere un accordo» con gli israeliani. Pur essendo tra i più stretti collaboratori di Abbas, la sua popolarità è al minimo, a causa della repressione da lui organizzata durante la seconda intifada dei militanti islamici (della Jihad, ma soprattutto di Hamas). Anche Jibril Rajoub, sebbene sia in rotta con Dahlan, si è macchiato di azioni di violenza contro i miliziani di Hamas a Gaza. Ex capo della sicurezza interna dell’Anp, nel 2006 anche lui è stato coinvolto nell’Action Plan americano. Oggi è a capo della Federazione calcio palestinese. Tawfiq al-Tirawi invece, storicamente vicino ad Abu Mazen e dichiaratamente ostile al movimento islamico è stato capo dell’intelligence palestinese.
Il nuovo Comitato Centrale appare fortemente variegato, con il rischio che il dibattito veda un rapido alternarsi di posizioni estreme con dichiarazioni moderate. L’esclusione della vecchia guardia e l’assenza di figure femminili può portare ad ulteriori predite di consenso a favore di Hamas e la presenza di Dahlan, Rajoub e al-Tirawi lascia prevedere un futuro incerto sulla strada della normalizzazione nei rapporti (e nella collaborazione) con Hamas. Il fatto poi che questi ultimi, sicuramente i più discussi tra quelli che hanno fatto ingresso nel CC, siano i più vicini ad Abu Mazen è un dato sul quale riflettere.
5 – Un discorso a parte merita l’elezione di Marwan Barghouti che, terzo per numero di preferenze (ha raccolto oltre mille voti), è il principale vincitore di questa competizione interna a Fatah. Sebbene sia limitato nella sua azione politica e nell’esercizio delle sue funzioni perché recluso in un carcere di massima sicurezza israeliano dove sconta l’ergastolo, è un dei pochi leader di Fatah amati e rispettati dalla popolazione palestinese. Laureato in Storia e Scienze Politiche e con un Dottorato di Ricerca in Relazioni Internazionali, Barghouthi è uno dei principali capi politici della prima Intifada. Ma è con la seconda Intifada (l’Intifada di al-Aqsa) che diventa indiscusso leader amato dalla gente. La situazione che si venne a creare a seguito della provocatoria visita di Sharon alla Spianata delle Moschee fu subito caratterizzata da sommosse e rivolte popolari a cui seguì una brutale repressione della polizia israeliana. La situazione sfuggì presto di mano all’Anp e nuove organizzazioni presero le redini dell’Intifada in mano. Tra queste emersero due milizie composte da militanti di base di Fatah: le “Brigate dei Martiri di al-Aqsa” e “Tanzim”, che comprendeva anche i membri delle forze di sicurezza critici verso la leadership dell’Anp. Il suo leader era proprio Barghouti e la struttura (che significa “organizzazione”, in arabo) raccoglieva quanti si sentivano politicamente vicini a Fatah ma erano in disaccordo con la linea defilata della leadership durante i primi giorni di Intifada. Barghouti divenne subito popolarissimo perché, sebbene fosse il segretario generale di Fatah della Cisgiordania, aveva pubblicamente attaccato il suo partito denunciandone gli elementi di corruttela ed aveva aperto fin da subito un dialogo con i movimenti islamici (Jihad islamica ed Hamas) ed i due fronti (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina) per coordinare un’azione comune. Non deve stupire, infatti, che Hamas nella lista dei prigionieri che richiede ad Israele, in cambio della liberazione del soldato Gilad Shalit, metta in prima fila proprio Barghouti. Questa propensione al dialogo tra le varie fazioni palestinesi (islamisti inclusi) non è invece sufficientemente appoggiata da Abu Mazen e dai suoi stretti collaboratori, a partire dai discussi nuovi ingressi nel Comitato Centrale che sono apertamente contrari. Il cuore politico di questa riconciliazione è espresso nel Documento della Concordia Nazionale Palestinese, conosciuto come il “documento dei prigionieri”, un patto nazionale elaborato in carcere dai leader dei gruppi più importanti (Fatah, Fplp, Fdlp, Hamas e Jihad, che però si è astenuta sul punto riguardante le trattative) e che vede proprio in Barghouti il suo principale sostenitore. Questo documento è un appello in 18 punti che, tra le altre cose, prevede: un progressivo ingresso dei gruppi islamisti (Jihad ed Hamas) nell’OLP in modo tale che questa struttura ritorni ad essere il rappresentate unico di tutti i palestinesi; viene ribadito il diritto alla resistenza armata nei soli Territori Occupati, aprendo però alla necessità di trattative con Israele rispetto ai confini del futuro Stato. Altro punto importante è la costituzione di un governo di unità nazionale in cui siano rappresentate tutte le fazioni politiche palestinesi, si fa riferimento alla necessità dei ritorno di tutti i profughi e la liberazione dei prigionieri politici. Obiettivo finale del “documento dei prigionieri” è l’instaurazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza con Gerusalemme capitale, in accordo al diritto internazionale e alle risoluzioni Onu. Si tratta quindi di un documento molto avanzato da punto di vista dei contenuti, in cui è forte l’influenza delle forze della sinistra palestinese e su cui convergono le principali organizzazioni politiche palestinesi.
Dopo quattro anni, purtroppo, questo documento è rimasto inascoltato e la vittoria di Hamas alle elezioni ha spinto Fatah ad una maggiore chiusura. Il governo di unità nazionale è tutt’ora irrealizzato, così come un accordo tra i principali partiti (Fatah ed Hamas), anche per influenze di paesi esterni che giocano sullo scacchiere palestinese per ricostruire una propria influenza nell’area. La strada quindi è ancora lunga ed il futuro resta ancora più incerto e difficile.