Ieri la Jugoslavia, oggi l’Iraq

Quattro anni fa cominciava la cosiddetta “missione umanitaria” contro Belgrado. 24 marzo 1999, l’inizio dei bombardamenti della Nato. Dopo i “missili intelligenti” la ex-Jugoslavia è nel caos.
Farà la stessa fine l’Iraq “liberato”?

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Guerra. Necessità di usare la forza per garantire la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Conseguenze terrificanti per chi si oppone alla superpotenza a stelle e strisce. George W. Bush non ha certo peccato di pragmatismo nel suo ultimatum all’Iraq: ha chiamato l’aggressione militare a un altro paese sovrano con il suo giusto nome. Guerra, e per di più “preventiva”.
Anche la fraseologia dei media si è adeguata. Finiscono in sordina i termini “missione umanitaria”, “operazione di polizia internazionale”, “azione volta a ristabilire l’ordine e la legalità”. I servizi dal fronte abbondano di descrizioni degli “effetti devastanti” delle bombe sui palazzi iracheni, si parla senza pudore di macerie, feriti, morti, civili in fuga. Le categorie di “missili intelligenti” e “attacchi chirurgici” restano, ma fungono più che altro da contorno. In Medio Oriente è in corso una guerra vera: ne è consapevole la maggioranza delle forze democratiche e progressiste di tutto il mondo, in piazza senza se e senza ma contro la violenza di Bush, Blair e un pugno di alleati, contro una guerra banditesca, in aperto sfregio delle norme del diritto internazionale. Tutto sembra chiaro, compresi i reali obiettivi delle armate anglo-americane.

La “sinistra” con l’elmetto

Non fu così quattro anni fa, quando nel mirino degli Usa vi era un altro “stato canaglia”, la Federazione Jugoslava di Slobodan Milosevic. Il calendario del 1999 segnava la data del 24 marzo quando le città serbe di Belgrado, Kragujevac, Novi Sad, Pancevo furono colpite dal carico esplosivo degli aerei Nato. Americani e inglesi, ma pure tedeschi, francesi e italiani. Erano i tempi della “terza via”, della “sinistra con l’elmetto” di Clinton, Blair e D’Alema, dei paesi dell’Unione Europea quasi ovunque governati da partiti di origine socialista i quali, attraverso la guerra in Jugoslavia, volevano dimostrare agli Stati Uniti che «la Nato sono anche loro, che possono avere – scriveva Paolo Palazzi ne “Il rovescio internazionale” – un ruolo determinante sia politicamente che militarmente per vincere questa guerra e soprattutto ogni altro futuro intervento».
Anche allora vi fu un’opposizione alla guerra. Nel nostro Paese non mancarono i cortei, i sit-in, le proteste studentesche. In parlamento, oltre al secco no di Rifondazione comunista, mugugni arrivarono da settori del centro-sinistra di governo. Ma – a essere sinceri – nulla che possa essere paragonato, neppure lontanamente, alle piazze straripanti di milioni di pacifisti viste in queste settimane. A chiedere la fine dei bombardamenti, a solidarizzare con la Jugoslavia in fiamme, c’erano poche migliaia di “anime belle”. Definite così non da un arrogante deputato di Forza Italia, bensì dall’insospettabile Achille Occhetto nelle vesti di bacchettatore di quella «sinistra italiana, e non solo italiana, (che) sbaglia quando dice che non ci deve essere mai l’uso della forza. Un’idea che non fa i conti con un problema di grande rilevanza: il diritto di ingerenza umanitaria».
Ora i Ds sfilano sotto le bandiere arcobaleno, condannano l’intervento unilaterale di Bush in Iraq, denunciano il pericolo di esautorazione dell’Onu, e questo è senza dubbio positivo. Sembra passato un secolo da quel 24 marzo. Erano i tempi di “Hitlerosevic”, dell’accostamento serbi-nazisti, del diktat di Ramboulliet. Quando Marco Minniti difendeva a spada tratta la «strategia che prevede l’intervento militare per fermare il conflitto in Kosovo e costruire attraverso un uso – in questo caso legittimo e inevitabile – della forza le condizioni per un’iniziativa diplomatica», e Walter Veltroni tesseva gli elogi della fedeltà atlantica. Quando Fabio Mussi si diceva orgoglioso che l’Italia fosse, dopo gli Usa, «tra i paesi più coinvolti nelle crisi regionali per impegno politico e delle forze militari», e Sergio Cofferati e la maggioranza della Cgil consideravano la missione nei Balcani una «contingente necessità». E’ solo un flashback, non è mia volontà alimentare una polemica retroattiva.

Dopo la guerra… peggio di prima

Da allora si potrebbe dire che nulla è più come prima. A partire dalla Jugoslavia, scomparsa ufficialmente dai libri di geografia. Il 27 gennaio di quest’anno, al termine di un processo che ha cancellato ogni retaggio di multietnicità e multiculturalità, si è trasformata in “Unione di Serbia e Montenegro”, contenitore che funge da anticamera della definitiva separazione delle due ex repubbliche federate. Anche le aspettative democratiche marcano il passo. In cambio della consegna di Milosevic al Tribunale-fantoccio dell’Aja e della vittoria del Dos, incoraggiata da settecento milioni di dollari, avevano promesso ai cittadini jugoslavi un “paese normale”, istituzioni moderne e pluraliste, benessere e investimenti stranieri a pioggia. Alla società civile occidentale che ha ingoiato il rospo dell’intervento umanitario, un Kosovo pacificato, liberato dai conflitti etnici e la violenza. La realtà è ben lontana.
La Serbia del post-Milosevic è sconvolta da una feroce guerra tra bande, con un Dos divenuto forza di governo ma lacerato al suo interno. Quello che è in corso non è uno scontro solo politico. Sotto i colpi di sicari ancora ignoti è caduto nei giorni scorsi il premier Zoran Djindjic, che di nemici se ne era fatti davvero tanti in questi anni di potere. Cominciando dall’ex presidente federale Kostunica e finendo in quella “zona grigia” che sta tra vecchi burocrati venduti al miglior offerente, settori dei servizi segreti, imprenditori arricchitisi con l’apertura all’economia di mercato e criminalità organizzata, risultati determinanti per dare la “spallata” a Milosevic, ma non sempre dagli interessi convergenti.
La Serbia di oggi è un paese in preda al caos assoluto, senza presidente – le elezioni sono state annullate per ben due volte per mancanza del quorum – senza premier, né autorità federali legittimate. Dopo il “bonapartismo” di Djindjic, un’ulteriore involuzione autoritaria potrebbe essere dietro l’angolo. Già è stato emanato un decreto che istituisce la legge marziale e nelle principali città della repubblica si assiste a centinaia di arresti indiscriminati: c’è aria di caccia alla streghe, di un nuovo 6 ottobre. L’economia va a picco: circa il 73% dei serbi adulti non ha più un lavoro stabile e vive di espedienti, decine di fabbriche sono state chiuse o sottoposte a ristrutturazione, la Zastava – l’orgoglio dell’industria automobilistica jugoslava – sembra l’ombra di sé stessa. La qualità della vita ha toccato livelli vicini a quelli del 1944, in piena seconda guerra mondiale. Il salario medio si aggira tra i 120 e i 200 euro, che non bastano neanche a pagare la luce e l’affitto, figuriamoci le spese sanitarie e per l’istruzione dei figli. Oltre ventimila persone sono morte di tumore negli ultimi quattro anni, di cui buona parte bambini, per gli effetti dell’uranio impoverito: le “bombe intelligenti” colpiscono ancora.

Vi ricordate del Kosovo?

E il Kosovo? Che ne è di questa provincia serba ora che si sono spenti i riflettori internazionali? Basta leggere i rapporti periodici stilati dalle stesse truppe d’occupazione occidentali, per farsi l’idea del mostro creato dai sostenitori dell’“ingerenza umanitaria”. Dicevano di combattere la “pulizia etnica”, il terrorismo di Stato serbo, di voler salvaguardare le popolazioni civili albanesi. «Gli Stati Uniti d’America e l’Armata di liberazione del Kosovo condividono gli stessi principi e gli stessi valori umani. Combattere per l’Uck è lo stesso che combattere per i diritti umani e i valori americani», affermava il senatore americano Lieberman.
Non so se oggi sarebbe ancora “politicamente corretto” sbilanciarsi in questo paragone. Tenendo conto che il Kosovo è diventato il regno incontrastato della mafia albanese, che dal suo territorio passa il 40% dell’eroina diretta dall’Europa agli Usa, gestito prevalentemente dalle milizie dell’Uck. Le stesse che hanno messo in piedi floridi affari investendo sulla prostituzione, il traffico di organi e lo “scafismo”. Per non parlare della pulizia etnica – questa senza virgolette – di cui hanno fatto le spese migliaia di serbi e Rom, ma anche goraci, ebrei, turchi e perfino kosovari non in linea con il capo-banda Thaci, delle chiese ortodosse devastate, dei cimiteri profanati, dei monumenti partigiani in macerie. Altro che pacificazione!
Un’ex Jugoslavia senza Milosevic, ma in mano a bande criminali concorrenti, in cui hanno trionfato l’odio razziale e il terrorismo separatista. Accanto a un Afghanistan “liberato” sì dai talebani, ma in balia di veri e propri signori della guerra feudali, dove la produzione di droga è tornata a essere il locomotore dell’economia locale. Con questi due esempi davanti,è facile prevedere come sarà l’Iraq di domani, quando i “crociati” di Bush e Blair avranno issato la bandiera americana su Baghdad…

* Segreteria nazionale PRC