Idee per un’economia nostra

Come ricreare lo sviluppo e i valori della solidarietà sconfiggendo l’ideologia neolibersita
Come cambiare E’ la semplicità che è difficile a farsi, scriveva Brecht nella sua lode al comunismo. Il convegno di ieri a Roma – Rive gauche, la critica della politica economica e le linee programmatiche delle coalizioni progressiste – è parte di questa difficile semplicità. Quasi otto ore di dibattito tra i maggiori economisti italiani di sinistra hanno messo in luce i limiti e le contraddizioni dell’attuale politica economica e i vincoli esterni – molti facilmente superabili – che gravano sull’Italia. Ora alla politica il compito di tradurre le idee in programmi

Brecht nella sua lode al comunismo conclude: è la semplicità / che è difficile a farsi. Rive Gauche, la critica della politica economica e le linee programmatiche delle coalizioni progressiste, è parte di questa difficile semplicità: ciò che era in ballo a Roma ieri durante il convegno voluto da Riccardo Realfonzo, Sergio Cesaratto e da il manifesto costituisce un insieme di problemi quanto mai urgenti. Sono stati espressi diversi punti di vista sulle linee programmatiche delle coalizioni progressiste, perché diverse sono le letture critiche che possono essere indirizzate alla politica economica. Appare subito chiaro, anche dagli interventi dei giorni precedenti su Il manifesto, che ciò che desta preoccupazione è l’agenda di politica economica che può scaturire dal programma dell’Unione. All’Unione si chiedono chiarimenti: cosa è «il vasto territorio che separa il liberismo ingenuo dalle nostalgie stataliste» di cui parlano Marcello Messori e gli altri economisti di area moderata? A chi, nell’Unione, ci sta per sostenere le ragioni di una politica economica alternativa, si chiedono analisi e proposte che vadano oltre il compromesso sociale keynesiano. L’abolizione della legge 30, della Bossi-Fini e la promessa di non accettare la tragica imposizione di sostenere la guerra infinita di Bush, sono dichiarazioni di intenti necessarie (non dobbiamo essere un sottosistema economico funzionale ad un’economia per la guerra), ma non sufficienti a costruire una politica economica in linea con le attuali circostanze storiche.

Declino e programmazione

L’incontro di Via Cavour cercava dunque un dialogo con gli uomini della politica. Apre i lavori Valentino Parlato ponendo l’attenzione sui temi del declino, quindi della programmazione economica, della lotta alle rendite e dell’investimento prima di tutto in cultura. Lunghini ricorda come le responsabilità del declino non sia dei lavoratori, ma di chi li organizza; prova ne è che mancano gli investimenti nonostante non manchino i profitti (indirizzati verso i mercati finanziari). Non manca neanche la forza lavoro da organizzare, secondo una cultura giuridico normativa che deve essere migliorata. Per questo occorre combattere l’ideologia della formazione e della occupabilità rilanciata anche dalla sinistra moderata. I bisogni da soddisfare restano tanti, e resta necessaria un’economia che cresca, che produca dunque sovrappiù. La democrazia economica compiuta – prefigurata da Keynes come conclusione della sua General Theory – è l’obiettivo ambizioso suggerito.

E’ apprezzabile la chiave di lettura proposte da molti dei relatori (esplicita nell’intervento di Cesaratto, implicita in quella di Brancaccio) che individua nel Patto di Stabilità uno dei principali elementi di destabilizzazione economica e politica che costringono la sinistra italiana a muoversi lungo un sentiero a binario unico verso una politica economica soggiogata ai vecchi precetti monetaristi. Si ribadisce che una teoria economica critica logicamente ineccepibile (e raramente insegnata nelle Università) spiega che i vincoli alla spesa pubblica e l’assetto istituzionale della Bce definiti a Maastricht impediscono la ripresa della spesa in disavanzo e la crescita dei salari reali. Cesaratto giunge a sostenere che il processo di unificazione europeo ha sferrato il corpo mortale all’economia italiana, che ha ancora bisogno della svalutazione. La creazione di una politica fiscale europea con la creazione di un debito pubblico comune costituisce un presupposto semplice e realizzabile per una nuova politica economica. Un’idea che aleggia nell’Unione Europea sin dalle sue origini e che trova curiosamente favorevoli non solo i critici dell’ortodossia economica come Pasinetti o Malcom Sawyer, ma persino Milton Friedman.

Il coordinamento a livello europeo delle politiche fiscali e di bilancio – ricorda Pivetti – presuppone che la politica monetaria sia subordinata all’orientamento espansivo di queste politiche; tanto più che i beneficiari esterni di ogni espansione interna dell’Ue sono in definitiva i paesi membri della stessa Ue. Pivetti non teme l’uso del termine statalismo. Augusto Graziani svela l’illogicità di alcune funzioni proprie della Bce (il controllo degli aggregati monetari) e tiene una lezione sull’assenza di democrazia all’interno di questa istituzione, notando come la Banca centrale europea non sia totalmente indipendente dalle banche centrali nazionali. Non solo, due semplici constatazioni di Graziani fanno sorgere il sospetto che il sistema sia fragile:

1) la Bce affida l’emissione dei biglietti alle banche centrali nazionali (ogni banconota ha la sigla dello stato che la produce);

2) La storia insegna che il vero prestatore di ultima istanza è sempre uno stato. Può la Bce fungere da prestatore di ultima istanza?

Distribuuzione dei redditi

Brancaccio ricordando che la sinistra suo malgrado ha le sue radici ben impiantate nel marxismo, suggerisce di guardare alla distribuzione dei redditi intergenerazionale degli ultimi 20 anni per riscoprire un problema di polarizzazione, un problema di classe (una conclusione antitetica a quella alla quale perveniva nel 1974 Sylos Labini nel suo famoso Saggio sulle classi sociali). Il riconoscimento del fondamento sociale e politico del debito pubblico e privato dovrebbe discendere, secondo Brancaccio, dalla definizione marxiana di contraddizione L’opposizione a qualsiasi piano di abbattimento del debito è, insieme alla socializzazione della moneta, condizione necessaria per tornare a discutere di piano.

Tuttavia lo stesso Lunghini ricorda i problemi che derivano da un debito pubblico troppo elevato collegato a irresponsabilità politica e finanziaria: «Dal debito pubblico è derivato, e deriva, un impedimento alla crescita, prima perché l’alto prezzo del denaro penalizzava gli investimenti, poi perché generava aspettative che deprimono la propensione a investire».

Si è anche consapevoli che l’abbattimento dei vincoli in oggetto non è sufficiente per realizzare un mondo diverso. Lo ricorda Mazzetti (l’alternativa viene espressa all’interno di uno spazio culturale che non corrisponde ai reali bisogni); lo ribadisce dal punto di vista ambientalista Ravaioli (che riconosce tuttavia come la decrescita non costituisca un programma di politica economica). Sorge una domanda scomoda senza la quale l’analisi resterebbe socialmente muta: siamo certi che una scelta politica che riconosca l’irrilevanza del debito pubblico sia condizione sufficiente affinché i soggetti sociali riorganizzino le loro lotte?

La relazione di Bellofiore-Halevi suggerisce che il centro dell’analisi e dell’azione politica dovrebbe essere costituito dal processo di ri-formazione della classe operaia che avviene contemporaneamente alla ridefinizione dello spazio economico europeo e asiatico. L’asse Cina-Stati Uniti determina il sistema finanziario internazionale massacrando l’Europa, e produce un meccanismo di frammentazione del lavoro secondo la terna lavoratore spaventato – risparmiatore terrorizzato – consumatore indebitato, che incide anche sui modi della valorizzazione nei luoghi di lavoro. Il Patto di stabilità costituisce allora un problema vero ma derivato e secondario, minacciato dalle picconate di Francia e Germania. Un’analisi corretta e condivisa della situazione sociale e finanziaria del capitalismo contemporaneo dovrebbe collegarsi a un’analisi di come si configurerebbe una politica di sinistra centrata su un intervento pubblico con orizzonti di lungo termine dunque sul problema della composizione e dei contenuti della spesa pubblica; ciò implica una politica industriale attiva, una politica del credito selettiva, uno stato sociale universalistico che tenga conto della questione della natura e assuma una prospettiva di genere.

Se si parte dall’iniqua distribuzione dei redditi – come fa Stirati ricordando che le rendite non derivano solo dal potere di mercato, ma dal divario tra crescita dei salari reali e crescita della produttività (almeno nei settori protetti dalla concorrenza internazionale) – non si esce comunque da questa impasse.

La caduta dei salari

La possibilità di intervenire contro la caduta della quota salari potrebbe condurre a proposte di politica economica radicali e mobilitanti, che i relatori del convegno hanno scelto di non affrontare: il basic income (che non è reddito minimo di inserimento) una modalità nuova di affrontare il problema dell’equa distribuzione dei redditi, misura coerente con i cambiamenti radicali che stanno ancora interessando il paradigma fordista-keynesiano. Una proposta politica che potrebbe sorgere innanzitutto in ambito regionale fungendo da stimolo verso forme di fiscalità che colpiscano le nuove rendite (le rendite tecnologiche precedono quelle finanziarie) e ostacolino i nuovi meccanismi di sfruttamento che il capitale propone riorganizzando tanto i luoghi della produzione quanto i luoghi esterni alla produzione (ma ad essa funzionali). Il contesto istituzionale che le riforma del titolo V della costituzione determina, può favorire questa rivendicazione, contrastando la riduzione della spesa sociale pubblica con modelli regionali di sviluppo che riconoscano le contraddizioni reali che si esercitano sui territori. In alcune giunte regionali il dibattito è già aperto. L’Italia è un insieme di sistemi economici locali; ognuno di essi risponde a dinamiche distinte anche in presenza di una stessa cornice istituzionale. Questo rilancia prepotentemente la questione delle combinazioni nuove fra una politica dell’efficienza commerciale del paese e una politica del welfare locale. Rilancia cioè la questione di un nuovo compromesso sociale con il capitale, che per essere tale presuppone l’esercizio di un conflitto di classe.