Tra coloro che dovevano seguire e facilitare il rientro di Giuliana Sgrena e Nicola Calipari c’era anche un ufficiale americano. E tutte le telefonate che la notte del 4 marzo 2005 accompagnarono il viaggio della Toyota italiana diretta all’aeroporto di Baghdad erano strettamente monitorate dalle forze Usa.
Anche se alcuni dettagli erano noti, i documenti depositati dalla procura di Roma alla vigilia della richiesta di rinvio a giudizio per il soldato Mario Lozano smontano di certo una delle leggende circolate su quel che accadde la notte del 4 marzo 2005: quella secondo cui gli americani non sapevano nulla della imminente liberazione dell’inviata del manifesto. A spiegarlo è stato l’ufficiale del Sismi Andrea Carpani, l’uomo al volante dell’auto che stava riportando in Italia Giuliana e i suoi liberatori. Nel verbale del 5 marzo 2005 chiarisce come sulla strada del rientro «dopo aver fatto un rapido esame del luogo il dr. Calipari ha effettuato alcune telefonate per avvisare il dispositivo del quale facevano parte il generale Marioli che ci aveva fornito i badge e un ufficiale americano che era stato richiesto quale ufficiale di collegamento per facilitarci il rientro, quest’ultimo veniva chiamato Green». La presenza del capitano Green è confermata anche dal capocentro del Sismi a Baghdad nel verbale del 4 maggio 2005. Green era presente quando arrivò l’ultima telefonata italiana e ascoltò la comunicazione tra Carpani e il capocentro del Sismi. «Carpani, prima che si interrompesse la comunicazione mi disse “siamo stati attaccati” – dice a verbale il capocentro Sismi – Di ciò informai subito il generale Marioli e il capitano Green. Green era in nostra compagnia e non so dire cosa questi abbia fatto».
Anche su quanto e come i telefoni utilizzati durante la liberazione di Giuliana Sgrena fossero costantemente monitorati dalle forze Usa il verbale di Carpani aggiunge dettagli importanti. Carpani, durante tutto il viaggio di rientro usò solo uno dei cellulari che due anni prima gli Usa avevano messo a disposizione dell’ambasciata. «Uno di questi telefonini, con numero , è quello che mi sono fatto dare al momento dal collega», quei telefonini, sul bilancio Usa persino per le bollette, erano generalmente usati per comunicazioni «non di natura sensibile, perché è ovvio…». Ai microfoni di Rainews24 Wayne Madsen, ex agente della National security agency, aveva spiegato che gli americani «conoscevano esattamente la posizione di Calipari al momento della sua uccisione». Anche gli agenti dell’intelligence italiana erano sicuri che, specie i cellulari messi a disposizione dagli Usa, fossero costantemente controllati. È ancora il verbale del capocentro Sismi a chiarire i dettagli sul punto: «D. Le comunicazioni che dovevano avvenire per la liberazione della Sgrena erano sicuramente da mantenere “coperte”, perché utilizzaste queste linee di comunicazioni aggredibili? R. In quel momento non c’erano altre possibilità. Le radio non son in grado di dare una copertura assoluta. D. Perché non utilizzaste telefoni criptati? R. La rete locale non supporta la trasmissione dati di quel tipo».
Tra le carte depositate dai pm romani c’è anche la lettera con cui lo scorso 19 aprile Mary Ellen Warlow, direttrice della divisione Criminale del Dipartimento di giustizia americana ha sbattuto la porta in faccia alle richieste di collaborazione arrivate da Roma sostenendo che «il personale militare statunitense al posto di blocco ha agito in conformità con le norme di ingaggio, cercando di neutralizzare il veicolo che si stava avvicinando e che era stato percepito dalle forze come una minaccia». Ma c’è anche il carteggio tra la procura di Roma e la presidenza del consiglio che dimostra come fu palazzo Chigi a scegliere di dare priorità alla commissione di inchiesta mista che gli americani chiusero sostenendo che il soldato Mario Lozano aveva rispettato le regole di ingaggio (il gruppo guidato dal diplomatico Ragaglini mise nero su bianco conclusioni opposte). A spiegare la scelta fu il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta nella lettera del 26 marzo 2006 inviata al procuratore Giovanni Ferrara. Sarebbero state date date «precise istruzioni ai componenti italiani della commissione d’inchiesta affinché i reperti non siano in alcun modo alterati». Ma prima di iniziare a lavorare gli investigatori italiani dovettero aspettare quasi un mese.