I trasformisti delle polemiche sulla storia

Tra i tanti, troppi, libri che oggi vengono definiti «scomodi», quello di Mirella Serri (I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, € 19,60) lo è davvero. Come erano stati «scomodi», del resto, tutti i tentativi di porre al centro dell’attenzione, da punti di vista molto diversi, il percorso dei giovani (intellettuali ma non solo) che dalle organizzazioni giovanili del fascismo erano passati all’impegno attivo nella Resistenza e nei partiti della nuova democrazia repubblicana. Cosa è cambiato oggi rispetto al tempo dei primi libri di Spinetti e Zangrandi (fine anni `40), della ristampa accresciuta del Lungo viaggio dello stesso Zangrandi all’inizio degli anni Sessanta, delle divertite elencazioni di partecipanti ai Littoriali che da parte fascista compiva Nino Tripodi negli stessi anni, e delle periodiche riscoperte di questa materia?

Direi che una serie di acquisizioni hanno indubbiamente mutato il nostro modo di guardare a quelle vicende. Le connotazioni del fascismo in quanto regime totalitario si sono fatte più nette, senza le prolungate edulcorazioni consolatorie sopravvissute per molti decenni (e ancora riaffioranti in molte occasioni). Il coinvolgimento della società italiana nelle strutture di quel regime, nelle diverse gradazioni di consenso (volontario, estorto, tiepido, fervido ecc.), è ormai da tempo riconosciuto nella sua complessa corposità. La tragedia delle leggi razziali del 1938 e della persecuzione degli ebrei nel nostro paese sono state ampiamente ricostruite e rievocate, senza le banalizzazioni e attenuazioni a lungo abituali.

Sul terreno della storia della cultura c’è stata l’individuazione degli anni della guerra come momento di massimo coinvolgimento nelle istituzioni culturali del fascismo di una parte vastissima dell’intellettualità italiana. C’è stato anche un netto ridimensionamento della portata ed efficacia di «nicodemismo» e «dissimulazione onesta» come strategie difensive degli uomini di cultura nei confronti del regime. Anche presunte «oasi» di neutralità, come l’Enciclopedia Treccani, si sono rivelate, attraverso gli studi di Turi, fortemente condizionate dalla politica culturale del fascismo. Importanti studi come quello di La Rovere sui Guf hanno sfatato quella immagine di Littoriali e organizzazioni giovanili fasciste come terreno di anticonformismo, quasi «palestre di antifascismo», come una fitta memorialistica, da Zangrandi in poi, aveva teso ad accreditare.

Da quanto detto, risulta chiaro che rivisitare quelle vicende oggi dovrebbe comportare minore scandalo e stupore che un tempo, senza suscitare le curiosità morbose che accompagnarono l’evocazione dei lunghi viaggi nei primi decenni repubblicani. Che però questi temi risultino ancora «scomodi» a oltre sessant’anni dagli avvenimenti pone indubbiamente una serie di problemi che forse vanno al di là del libro in sé ma investono il nostro modo – di italiani repubblicani del XXI secolo – di istituire un rapporto col passato fascista in tutte le sue implicazioni.

In primo luogo va spiegato perché il libro di Serri abbia stimolato tanta animosa severità verso il «trasformismo» dei giovani intellettuali di quel tempo da parte di contemporanei che peraltro di trasformismo sono edotti; e qui bisogna per correttezza distinguere tra ciò che è proprio di Serri e ciò che attiene al dibattito che sul libro è stato promosso, e di cui l’autrice è ovviamente incolpevole.

Nel libro in sé, che non contiene molto di nuovo, ma offre una ricognizione ad ampio raggio (e circoscritta agli anni della guerra) su casi emblematici di passaggio all’antifascismo – di personalità più o meno giovani come Argan, Della Volpe, Lizzani, Muscetta, Alicata, Guttuso, Carlo Morandi, Giaime Pintor, Sylos Labini, Rossellini -, ci sono alcune cose che lasciano perplessi. Che riguardano tono e scrittura, categorie adottate, il detto e il non detto.

La prima notazione che viene in mente al lettore non ignaro della materia è quella che ha avanzato Nello Ajello su Repubblica del 27 settembre: stupisce lo stupore dell’autrice di fronte a cose già note.

Aggiungerei che sorprende la sorpresa di Serri nello scoprire che il fascismo era fascista. Aveva cioè una visione del mondo ostile alla democrazia e alle libertà individuali, guerresca e gerarchica, razzista e nei suoi ultimi anni violentemente antisemita. Che gli scritti dei nostri personaggi compaiano affiancati, nelle riviste del regime, a truci articoli di propaganda antiebraica, non dovrebbe in realtà sorprendere.

C’è spesso un tono quasi di denuncia, di indignazione repressa. Si afferma la necessità di rifuggire dal «moralismo», però di fatto si moraleggia ampiamente. Lo evidenzia il fatto stesso di contrapporre, nelle prime pagine, i percorsi di questi giovani alle «biografie esemplari di Giorgio Amendola, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e tanti altri ancora», testimoni di «un antifascismo per nulla edulcorato o di maniera». Cosa che può avere senso sul piano etico, ma è ingeneroso sul piano storico.

Si sta parlando di una generazione che non era diventata fascista, ma era nata fascista ed era cresciuta con naturalezza nell’unico orizzonte che poteva percepire. Nelle note di Zangrandi e degli altri primi testimoni, accanto alla eccessiva autoindulgenza e alla delineazione di una illusoria linearità di percorso (dagli inganni del fascismo alla consapevolezza dell’antifascismo), vi erano pure rivendicazioni valide sulla specificità irripetibile di una «generazione senza maestri», l’unica cresciuta interamente in clima di dittatura nella storia italiana, e che aveva dovuto cercare da sé la propria strada. Combattendo in primo luogo dentro sé stessi e contro tutto ciò che avevano appreso ed era stato loro insegnato.

Nel libro si scrive en passant che solo «più tardi», o «molto dopo» (in genere nel `42, ma in ogni caso prima dell’8 settembre `43) questo o quel personaggio sarebbe stato rinchiuso a Regina Coeli. Ma ciò che conta è proprio il fatto in sé, che dimostra che cospirazione esisteva davvero, che la dissimulazione più o meno onesta era comunque rischiosa, non era un semplice gioco di società, che non vi fu quella transizione «pacifica» dal fascismo all’antifascismo che l’autrice asserisce.

Lo stesso termine «redenti» adottato nel titolo, (definizione ironica di Velio Spano a proposito dei trascorsi di Alicata, Ingrao e altri giovani venuti al Pci da quella strada) che, si chiarisce, non vuol dire «voltagabbana», bensì uomini che «vissero due volte», è degna di discussione. Fino a che punto si adatta ai personaggi del libro? In senso tecnico, può certamente dirsi «redento» uno storico già quarantenne come Carlo Morandi, che fu su «Primato» convinto assertore delle ragioni della guerra fascista per poi divenire, dopo il `43, storico democratico e formulatore di temi e problemi destinati ad avere grande fortuna nella cultura repubblicana. Portando con sé, mutate di segno, molte propensioni già esistenti che venivano rimodulate in una piattaforma nuova: che è, al di là del caso personale, il problema culturale più complicato e affascinante di questa storia. Fra i giovanissimi può dirsi redento un Eugenio Scalfari, tra i pochi a confessare di aver riletto «vergognandosi» i suoi scritti giovanili su Roma fascista, senza attribuirsi improbabili dissimulazioni. Ma, per quanto riguarda coloro che già cospiravano o facevano parte di «reti» organizzate dell’antifascismo, il termine non ha molto senso. Anche senza attribuire grande valore pratico alla consuetudine dello scrivere cifrato, dello stile allusivo, dell’invito a leggere tra righe che a fascismo caduto sarebbe invalso come chiave di lettura per questa produzione, va pur detto che in presenza di una attività non velleitaria o immaginaria di «fronda» ma di effettiva cospirazione antifascista non è possibile leggere questa produzione prendendola integralmente alla lettera come espressione autentica del pensiero degli autori. Che si muovevano, è il caso di precisare, in una situazione che definire ambigua è consapevole eufemismo.

Ma se si accetta il termine in senso più ampio e lato, allora la definizione di «redenti» può valere per la gran parte degli italiani, che conobbero un percorso non dissimile e in molti casi ancora più «tardivo» di quello dei personaggi esaminati. Gli intellettuali lasciano tracce con i loro scritti, l’orientamento della «gente comune» può essere ricostruito attraverso strumenti più precari quali rapporti di polizia o memorie non troppo dettate dal senno di poi. In ogni caso risulta evidente che la crisi del fascismo precipita durante la guerra e a causa delle sconfitte, erodendo un consenso che nel giugno `40 è fortemente venato di perplessità ma ancora solido nell’aspettativa di una guerra breve e vittoriosa.

Si sono col tempo dimenticate alcune acquisizioni fondamentali che erano già presenti nella prima storiografia sulla Resistenza: ad esempio quel concetto dell’antifascismo di guerra che era centrale già nei primi lavori di Roberto Battaglia. Pochissimi partigiani venivano da tradizioni di organizzazione clandestina antifascista, e la grandissima parte di loro proveniva dalle file delle organizzazioni fasciste o aveva compiuto la sua scelta a ridosso o immediatamente dopo l’8 settembre.

Nell’ultima parte del libro Serri affronta il tema, importante, della rimozione o della edulcorazione dell’antisemitismo italiano. A parte qualche apprezzamento estetico di Lizzani sulla filmografia tedesca non si trova un significativo coinvolgimento dei personaggi presi in esame, ma indubbiamente la rimozione riguarda il contesto del fascismo degli ultimi anni, che ha ormai incorporato l’antisemitismo come elemento necessario e fondante della propria visione del mondo. Ha fatto comodo a tutti dimenticarlo, o addirittura negarlo, o comunque parlarne poco. Può anche esser giusto rilevare il relativo scarso risalto che nel secondo dopoguerra la «cultura di sinistra» aveva dato alla tragedia ebraica, ponendolo spesso come uno dei tanti disastri e lutti della guerra, purché non si lasci intendere che «altre» culture ne parlavano invece diffusamente. In realtà quel poco che si sapeva in Italia lo si doveva esclusivamente alla tanto bistrattata «cultura di sinistra», e il processo di elaborazione della coscienza occidentale sul tema, nella sua enormità, fu lento, lungo e faticoso. Anche da parte delle stesse vittime.

Quanto al dibattito pubblico, che in larga misura prescinde, come è ormai costume, dal libro e dalla sua tematica, ci limitiamo a notare solo alcune delle caratterizzazioni più degne di nota.

In primo luogo è emersa una severità di giudizi attorno a questa generazione che stride con l’indulgenza zuccherosa nei confronti dei «ragazzi di Salò» in genere dispensata dalle stesse tribune. Sarà il caso di ricordare che ai giovani intellettuali di cui si sta parlando si può tutt’al più rimproverare di avere scritto sciocchezze, non si sa quanto sincere, sulle riviste del regime.

Colpisce anche che un giornalista, a distanza di pochi giorni, possa scrivere un severo articolo di denuncia del trasformismo dei giovani di sessant’anni fa (molti dei quali divenuti partigiani, alcuni morti nella lotta di liberazione) e poi un editoriale di condanna per Romano Prodi che cerca di porre un qualche freno («giustizialista») al trasformismo in atto oggi da parte dei «redenti» dal berlusconismo, che è «servitù» indubbiamente «volontaria» in tempo di democrazia.

Ma è ovviamente la «questione comunista» a tenere banco: il passaggio dal fascismo al comunismo (di alcuni, non tutti) degli esponenti di quella generazione confermerebbe la loro vocazione totalitaria e una propensione alla cultura militante, faziosa, che dall’ala protettiva di Bottai si prolungherebbe con naturalezza fino a quella di Togliatti, che sceglie di accogliere i «redenti» assegnando loro incarichi di responsabilità.

Bisogna osservare almeno un paio di cose: che in questo caso da parte comunista non c’è improvvisazione, ma il prolungamento coerente di una strategia di attenzione e anche di infiltrazione nelle organizzazioni fasciste che veniva realmente «da lontano». Dal 1936 e dal discutibile appello ai «fratelli in camicia nera» si era scelto di far leva sulle contraddizioni tra programmi originari del fascismo e la loro mancata o deludente attuazione. Personaggi come Eugenio Curiel, stranamente non citato nel libro, anticipano il percorso di alcuni degli esponenti della generazione più giovane.

Quanto alla «continuità» tra populismo fascista e impegno nelle organizzazioni della sinistra, va ricordato che questa tesi è stata in primo luogo adombrata nelle memorie di molti protagonisti, ma anche sottoposta a critica, in tutte le sue implicazioni, proprio da parte della «cultura di sinistra». Si pensi al fortunato e fondamentale testo di Alberto Asor Rosa su Scrittori e popolo.

Rivisitando quella tematica a distanza di molti anni, e sulle base delle nuove acquisizioni di cui disponiamo, credo che l’accento dovrebbe cadere assai più sulla discontinuità che sulla continuità, più apparente che sostanziale. Passare da una visione del mondo grettamente nazionalistica – e il populismo fascista aveva anche tratti strapaesani, assai più che provinciali – e nell’ultima fase intimamente razzista, a una prospettiva che, ingenua e semplificata quanto si vuole, aveva comunque connotazioni di universalismo senza confini di geografia e di razze, è un salto non semplice né lineare. La prospettiva della lotta al capitalismo non è assimilabile a quella contro la «plutocrazia giudaica». E’ pur vero che in quella transizione, lenta, complessa e faticosa, e che solo i singoli percorsi individuali possono restituirci compiutamente, può esservi l’inveramento di aspirazioni che retrospettivamente si riconoscono confusamente già adombrate e che solo a posteriori diventano riconoscibili. E’ questo uno dei procedimenti logici più frequenti nella memoria di quella generazione.

Ma credo si debba anche dire che quel lungo viaggio, se si vuole usare l’espressione canonica, era un viaggio non finito, che va oltre il `45, e si intreccia con il percorso della costruzione di una nuova democrazia. Quanto quei giovani portino con sé del loro passato, riplasmato in termini individuali è collettivi, è tema di studio veramente impervio, riservato a storici capaci di cogliere tutti i chiaroscuri e le sfumature di una vicenda dai contorni frastagliati, non può essere argomento di commissioni postume di epurazione.