Stati Uniti e Israele senza limiti
In dieci anni gli Stati Uniti hanno fatto guerre attraverso l’ONU (Golfo), senza l’ONU (Somalia, Jugoslavia e Afganistan), con la NATO e senza NATO. Appoggiano sistematicamente una guerra – quella di Israele – contro l’ONU. Non hanno e non intendono avere più limiti per condurre dove vogliono e come vogliono la loro “guerra infinita” per l’egemonia regionale e globale. Anche il nazismo si è mosso così rendendo inutile e travolgendo la “Società delle Nazioni”. Come rallentare o contrastare la tabella di marcia del “nemico principale”?
Cosa hanno in comune la distruzione e il massacro di Jenin, i bombardamenti sull’Afganistan e il processo al Tribunale dell’Aja contro Milosevic? La fine di ogni illusione di “legalità internazionale” che potesse in qualche modo sostituire il buco lasciato dalla fine del bipolarismo USA/URSS su cui erano rette le relazioni internazionali per quaratacinque anni. Nelle fosse comuni di Jenin, tra le montagne afgane e nelle aule dell’Aja è stata seppellita definitivamente ogni ambizione a far si che l’ONU potesse svolgere questo ruolo “equilibratore”.
A Jenin è stato dimostrato al mondo che uno Stato (Israele) può infischiarsene delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei suoi ispettori senza subire alcuna sanzione. In Afganistan si é legittimato che si può fare una guerra senza dichiararla e senza subirne le conseguenze legali. All’Aja si sta cercando di nascondere che il sistema di punizione tramite i bombardamenti adottato contro la Jugoslavia nel caso del Kossovo è diventato una norma che prevede delle eccezioni (ancora Israele ma anche la Turchia che continua a perseguitare e reprimere i curdi). Siamo ben oltre i due pesi e due misure.
Un delirio di onnipotenza
A ottobre dello scorso anno, in pieno clima “post 11 settembre”, prima l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Avi Pazner, e poi il Segreterio alla Difesa americano Rumsfeld, dichiaravano esplicitamente che Israele e Stati Uniti erano pronti a ricorrere alle armi atomiche nel quadro della “guerra infinita”.
La cornice strategica che rende più realistica questa minaccia, è la “nuova dottrina nucleare” statunitense. La nuova dottrina americana prevede dei “bombardamenti nucleari chirurgici” contro i centri di comando nemici. Essa è stata elaborata specularmente ad un accordo sulla riduzione delle armi nucleari strategiche con la Russia che in tre paginette sostituisce e liquida gli accordi Start e procede all’accantonamento di migliaia di testate atoomiche ma non alla loro distruzione. In cambio di tale accordo alla Russia, con il vertice di Roma, è stato consentito l’ingresso nel Consiglio della NATO ma “senza potere di veto”.
Una nuova manifestazione di tale delirio di onnipotenza potrebbe venire tra breve contro l’Iraq. In questo caso, il rifiuto di accettare ispezioni dell’ONU – come fatto da Israele – verrebbe sanzionato con i bombardamenti ed una eventuale occupazione militare americana ed israeliana. Rumsfeld, in un discorso tenuto il 31 gennaio scorso, ha chiarito che gli “Stati Uniti devono avere una capacità di dissuasione su quattro importanti teatri di operazione” e devono essere in grado di “battere simultaneamente due aggressori mantenendo la capacità di una controffensiva di vasta portata e di occupare la capitale di un paese nemico per insediarvi un nuovo regime”. (1)
Siamo di fronte ad un progetto di offensiva e di controllo militare e strategico del pianeta che rende vano qualsiasi confronto con il recente passato. Non è casuale che gli alleati strategici degli Stati Uniti in tale progetto siano l’ultima potenza imperialista prima dell’avvento degli USA (la Gran Bretagna) e uno Stato dotato di un establishment globale (Israele) molto integrato con le prime due e molto influente in tutt i principali paesi (dagli USA, alla Francia, alla Russia) attraverso la sua rete internazionale di lobby. Sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique, Geoffrey Aronson sottolinea chiaramente come “al pari di Tony Blair, Sharon è uno dei più fervidi paladini della “guerra contro il male”.
Gli Stati Uniti hanno lanciato una corsa al riarmo e una escalation delle spese militari che sembra indicare piuttosto chiaramente quella bellica come la via d’uscita dalla crisi del sistema. Un professore dell’università di Harvard, Robert Barro, ha calcolato come, dal 1945 in poi, ogni dollaro di aumento nel budget della Difesa americana abbia un impatto tra i 60 e i 70 centesimi sull’economia.
Una economia di guerra
L’escalation delle spese militari degli Stati Uniti, in miliardi di dollari)
1998: 259 2001: 301
1999: 279 2002: 328
2000: 290 2003: 379
(dati dell’Ufficio Bilancio del Congresso degli Stati Uniti)
La trappola dell’equidistanza
In tale contesto, la tradizionale posizione di equidistanza con cui gran parte della sinistra europea ha affrontato la storia degli ultimi decenni, rischia di diventare un suicidio politico oltre che un cedimento strutturale all’apparato politico, mediatico e militare di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Luciana Castellina, in un coraggioso articolo, ha avuto il coraggio di dichiararsi “non neutrale” sulla questione palestinese. (2) Prima di lei, avevamo visto emergere posizioni coraggiose più tra gli intellettuali militanti israeliani che tra quelli della sinistra italiana.
In questi anni abbiamo visto troppe volte schieramenti incerti dentro le guerre che sono state scatenate: “nè con gli USA nè con l’Iraq” e poi “né con la NATO né con Milosevic” e ancora “no ai bombardamenti no al terrorismo” dopo l’11 settembre” ed infine “no all’occupazione no al terrorismo” nel caso della Palestina.
Non è solo la sproporzione delle forze in campo a rendere errata ed impraticabile
l’ equidistanza tra esse ma è soprattutto la loro natura e la loro diversità strategica a rendere devianti e paralizzanti queste posizioni.
Che simmetria può esserci tra l’occupazione militare e coloniale di Israele, con un esercito ultramoderno dotato anche di armi nucleari e la resistenza del popolo palestinese che ha dovuto in alcuni casi estremi affidarsi agli attentati suicidi per affermare il suo diritto alla vita, alla terra ed alla dignità di fronte all’inerzia della comunità e della legalità internazionale? Rifugiarsi dietro il rifiuto della violenza non è credibile nè progettuale a fronte non solo dello strapotere e della straordinaria indulgenza di cui continua a godere Israele ma a fronte di un intero sistema di dominio – quello statunitense – che si regge sulla legittimizzazione del “terrorismo di stato”?
Nel caso della Jugoslavia, un recente libro di inchiesta realizzato da un giornalista tedesco – Jurgen Elsasser – svela gran parte delle menzogne che hanno preparato e accompagnato l’aggressione contro la Jugoslavia nel corso degli anni ’90 fino ai bombardamenti della NATO nell’aprile del 1999 (3).
Una posizione equidistante in quel conflitto ha significato aver fatto proprie quelle menzogne, aver limitato il proprio campo di azione politica contro la guerra “ai metodi” e non al merito, cioè una aggressione militare unilaterale contro uno Stato sovrano preparata nel tempo. Di più, se nel caso dei talebani in Afganistan, eravamo in presenza di un regime teocratico tribale e ultrareazionario, nel caso della Jugoslavia eravamo in presenza di un governo progressista e di una società politicamente molto articolata con un esecutivo e forze d’opposizione.
Ma anche sull’Afganistan, gli esponenti politici o pacifisti che partecipavano ai talk show, si facevano sistematicamente inchiodare sul terreno del metodo fino a rimanere senza parole di fronte all’imperativo: “e voi come fareste a convincere i talebani a consegnare Osama Bin Laden o a ridare libertà alle donne”? Nessuno ha avuto l’acume o il coraggio di dire che ci sono paesi come Cuba che da anni chiedono l’estradizione dei terroristi che fecero saltare un aereo civile cubano e non si sono mai sognati di andare a bombardare Miami o Washington perchè gli Stati Uniti si rifiutano di estradarli. La paura di “appiattirsi su Castro o su Milosevic” ha reso dunque fragili le argomentazioni dei pacifisti di fronte all’incalzare delle guerre.
Stati Uniti e Israele senza limiti
Governi come quello statunitense o quello israeliano stanno approfittando della situazione di unipolarismo mondiale dovuta alla mancanza di un qualsiasi polo riequilibratore delle relazioni internazionali, per arraffare sul campo – con la diplomazia o i bombardamenti – tutto ciò che gli serve per consolidare la loro egemonia: dagli oleodotti a nuove basi militari, da nuovi confini che rendono Israele sempre più estesa al monopolio delle risorse o delle tecnologie civili e militari (4)
Sotto alcuni aspetti le amministrazioni di Bush e Sharon sembrano aver ingaggiato una corsa contro il tempo. La prima per rinviare sine die il declino dell’egemonia americana sul mondo e scongiurare l’emergere di “rivali strategici”, la seconda per raggiungere definitivamente l’obiettivo storico della Grande Israele. Il ricorso alla guerra, in tal senso, non è più una eccezione ma la regola e per essere efficace tale regola non deve più incontrare dei limiti nella legalità e nelle istituzioni internazionali come l’ONU ed in Palestina l’ONU è stata seppellita forse definitivamente.
Il nemico principale
La guerra contro il terrorismo è ormai lo scudo per arrivare a bombardare Bagdad come Teheran, Kabul come Ramallah, Damasco o le zone della Colombia controllate dalle FARC, per riportare i militari americani nelle Filippine e quelli israeliani in Libano o “per dare una lezione a Chavez”.
Nessuno oggi si siederebbe a discutere di metodi giusti o sbagliati con un nazista. Tantomeno si potrebbe discutere di merito. Nessuno, nella Seconda Guerra Mondiale, se l’è sentita di essere equidistante tra Stalin e Hitler. Chi accetterebbe di essere equidistante tra un adulto malintenzionato e un bambino cattivo? Perchè allora dobbiamo accettare di discutere sul terreno imposto da governi come quello degli Stati Uniti e di Israele? L’Unione Europea ancora non riesce a dimostrare la sua capacità di esprimersi come polo imperialista globale e competitivo in grado di riequilibrare le relazioni internazionali. Lo scenario di un esteso conflitto inter-imperialista non è ancora all’ordine del giorno (anche se la tendenza sembra muovere in questa direzione). Gli obiettivi di fase dell’offensiva strategica dell’asse USA-Israele-Gran Bretagna, i cosiddetti “Stati-canaglia” o i movimenti di resistenza popolare, non sono sempre “i compagni di strada” che possiamo sceglierci, ma al momento sono gli unici che abbiamo per cercare di fermare il nemico principale.
Note:
(1) Paul Marie De La Gorce: “La nuova dottrina militare americana” in Le Monde Diplomatique, marzo 2002
(2) Luciana Castellina sulla “Rivista del Manifesto”, numero di aprile 2002
(3) Jurgen Elsasser: “Menzogne di guerra”, edizioni Città del Sole, Napoli, marzo 2002
(4) Per una analisi e documentazione completa su economia di guerra e imperialismo, vedi “La Belle Epoque é finita”, Quaderni di Contropiano per la rete dei comunisti con interventi di: Carchedi, Cararo, Giacchè, Gattei, De Angelis, Sebastiani, Contin, Vasapollo, Screpanti, Halevi
Avviso ai naviganti n. 17:
Non investono, però approfittano!
di Giorgio Gattei
Ma ritorniamo ai nostri montoni (come direbbero ifrancesi), che poi sono i capitalisti nazionali. I quali negli anni Novantahanno allegramente sabotato gli investimenti come mostra la loro mediad’incremento percentuale (P. Caselli, P. Pagano e F. Schivardi, Investment and growth in Europeand in the United States in the nineties, “Banca d’Italia-Temidi discussione del Servizio Studi”, 2000, n. 372, tav. 1):
1951-60 1961-73 1974-90 1991-98
+ 9.7 + 4.5 + 1.5 – 0.4
E’ quanto s’è sostenuto negli ultimi Avvisi, a prova chei governi dell’Ulivo, che (ci raccontano) gli italiani consapevoli oggirimpiangerebbero, sono stati in primo luogo rigettati dai “padroni delvapore” (per dirlacon Ernesto Rossi) che si sono messi a remar loro contro disaccumulando. Acambiamento di governo avvenuto, è stato lo stesso Governatore dellaBanca d’Italia ad affermarlo ufficialmente dichiarando, nel corso diun’audizione parlamentare, che “la politica del centrosinistra ha portato ad una bassa crescita, piùbassa della media europea” (“La Repubblica”,25.7.2001). Vero, ma solo in questo senso: dato che c’era il centrosinistra, gli investimenti sono stati ridotticon la conseguenza di frenare la crescita.
Però le imprese i profitti li hanno pur fattiall’ombra dell’Ulivo! Certo che sì, come hanno pietosamente ricordatoAmato, Visco e Del Turco nel loro ultimo Documento di ProgrammazioneEconomico-Finanziaria per gli anni 2001-2004 (Roma, 2001): “negli ultimi anni le impresehanno ampiamente ricostruito i margini di profitti… La lororedditività operativa è oggi significativamente superiore a quellaregistrata nei primi anni novanta. A ciò ha certamente contribuito la discesa dell’inflazione e dei tassid’interesse, la riforma fiscale e la riduzione del costo del lavoro” (p.X), quantificandone l’incremento nell’andamento percentuale del MargineOperativo Lordo sul Valore Aggiunto (p. 11):
1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999
29.7 30.1 32.2 34.3 34.4 33.7 34.6 34.6
Ma l’ingratitudine umana è grande! E così, se leimprese i profitti li facevano, semplicemente non li investivano. Peròse non li investivano, dove mai li mettevano? Ce l’ha spiegato LauraPennacchi in un articolo su”La Repubblica” (3.4.2001) a proposito della (mancata)Competitività dell’Italia: posto che “nel nostro paese” isoldi ci sono, visto che “la formazione di risparmio eccedesistematicamente gli investimenti”, è però “mancato il salto innovativo”, con il bel risultato di unaproduttività in ristagno; è “mancato il salto di modelloesportativo”, con conseguente calo percentuale delle esportazionihi-tech; è “mancato ilsalto dimensionale”, sicché la struttura produttiva è rimastaafflitta da “nanismo”. Insomma, si è formato un “eccesso diautofinanziamento del sistema delle imprese rispetto ai fabbisogni dicapitale” che ha preso “presumibilmente la via dell’estero, via del tutto fisiologica, ma dellaquale non si può tranquillamente concludere che si tratti didelocalizzazioni tradizionali (alla ricerca cioè di un minore costo dilavoro)… se gli “investimenti diretti” si rivolgono prevalentemente verso Lussemburgo eLondra, certo non piazze per cui appare rilevante l’indicatore “basso costo del lavoro””.
Ma prescindiamo dalla destinazione (se a Timisoaraoppure alla City di Londra). Quel che è certo, e niente affatto”presumibilmente”, è che una bella fetta di profitti ha preso lavia dell’estero. Ma quanto? Se guardiamola bilancia dei pagamenti, le poste (in percentuale del PIL) mostranoqueste variazioni percentuali medie dal 1980 in poi (M. Committeri, Errori e omissioni nella bilancia dei pagamenti, esportazioni di capitali eapertura finanziaria dell’Italia,”Banca d’Italia-Temi di discussione del Servizio Studi”, 1999, n. 352, tav. 3):
1980-85 1986-92 1993-97
Partite correnti – 1.14 – 1.30 +2.37
Movimenti di capitali +1.03 +1.93 -0.49
Riserve ufficiali +0.13 – 0.13 -0.59
Errori ed omissioni – 0.02 – 0.50 – 1.29
Qui si vede come il discrimine è stato il 1992, l’annodella mai tanto deprecata svalutazione della lira che invece è stata ungran bene perché da quel momento la bilancia commerciale (le “Partite correnti”) s’è fatta positiva, a prova che ci si era finalmente messi ad esportare dipiù delle importazioni. A loro volta i “Movimenti di capitali”,che in precedenza avevano saldo in entrata, hanno mostrato saldo in uscita,che poi non è altro che ilsegno di una loro esportazione netta pari mediamente a mezzo puntopercentuale del PIL all’anno. Dalla Relazione annuale per l’anno2000 del Governatore della Banca d’Italia si possono poi trarre i valoriassoluti di questa esportazione netta di merci e capitali (p. 156):
Partite correnti
1995 1996 1997 1998 1999 2000
+40.645 +60.769 +56.813 +39.585 +14.894 -11.794
Movimenti dei capitali
-1.939 -11.762 -6.966 -30.138 -25.515 +20.401
E qui si vedono due fatti: il primo è che labilancia commerciale è ridiventata passiva nel 2000 a prova che, se lasvalutazione della lira l’aveva favorita in maniera egregia, l’ancoraggioal cambio fisso con l’euro nel 1999 l’ha strangolata, riportando l’Italia ad essere il solito paese importatoredi merci (saranno contente Francia e Germania, che dalla “liretta” sierano viste sottrarre consistenti quote di mercato!). Il secondo è che,simmetricamente,il saldo del movimento dei capitali ha cambiato di segno: se prima eranegativo, nel 2000 è ridiventato positivo a significare un ammontared’importazioni di capitali superiori alle loro esportazioni. Se nel 2000tutto è cambiato, tra 1995 e 1999l’esportazione netta è stata robusta, come risulta dalla somma degliammontari che dà la bella cifra di 76.320 miliardi di lire che dalnostro paese hanno preso “simpaticamente” la viadell’estero.
Quindi possiamo concluderne che sono mancati 76.320miliardi di lire che avrebbero potuto essere investimenti? Magari! Il fattoè che la fuoriuscita netta dei capitali al tempo dell’Ulivo è stataben più consistente, comemostrerà il prossimo Avviso dopo aver considerato anche le altre dueposte della bilancia dei pagamenti. E allora si capirà come all’Ulivo i”padroni del vapore” abbiano letteralmente tolto l’ossigenoeconomico, in attesa di quel “ribaltone politico” che avrebbe reso conveniente il ritorno dei capitali