Per gli americani in Iraq ufficialmente la guerra è quasi finita. Raccomanda il ritiro delle truppe di combattimento nel primo trimestre del 2008 il rapporto presentato ieri al presidente George Bush dal «gruppo di studio» dell’ex segretario di Stato James
Baker. «È una valutazione severa – ha dichiarato Bush dopo un colloquio a quattr’occhi con Baker. – Prenderemo sul serio ogni proposta del gruppo di studio, e agiremo in modo tempestivo».
I militari americani sono in Iraq dal marzo 2003. Hanno combattuto in questo paese più a lungo che nella seconda guerra mondiale. Il gruppo di studio incaricato da Bush di cercare una via di uscita lo ha avvertito che la situazione in cui si è messo «è “grave e si sta deteriorando ancora». Prima che il suo partito fosse sconfitto nelle elezioni del 7 novembre, il presidente si proclamava deciso a «mantenere la rotta». La commissione dei saggi gli ha tolto l’illusione che l’insurrezione possa essere stroncata con la sola forza delle armi, come i suoi generali hanno cercato di fare con il sanguinoso bombardamento di Falluja, la città ribelle. «La missione primaria delle forze americane in Iraq – raccomanda il rapporto – deve evolversi nel sostegno all’esercito iracheno. È chiaro che il governo iracheno avrà bisogno dell’assistenza americana per qualche tempo, per fare fronte alle sue nuove responsabilità di sicurezza. Tuttavia gli Stati Uniti non devono impegnarsi a mantenere in Iraq un grande numero di militari a tempo indeterminato». La commissione Baker ha evitato di indicare date precise per il ritorno in patria delle truppe. Tuttavia fonti politiche e militari indicano che entro fine marzo dovrebbe rientrare la metà dei 140 mila soldati oggi in Iraq, e gli altri dovrebbero dedicarsi all’addestramento delle forze irachene senza impegnarsi in offensive contro i ribelli. Al governo iracheno, il rapporto chiede un maggiore impegno, con la minaccia di ridurre gli aiuti economici e militari se non farà di più per guadagnare la fiducia dei suoi cittadini. In 142 pagine, il rapporto contiene 79 raccomandazioni perBush, che in parte sono l’esatto contrario della strategia scelta da lui. Il presidente ha sempre rifiutato il dialogo con Siria e Iran. Nelle sue intenzioni l’invasione dell’Iraq doveva intimidire questi due paesi. Ora il rapporto consiglia di collaborare con loro: «I vicini dell’Iraq e Stati chiave fuori dalla regione dovrebbero formare un gruppo di sostegno» per promuovere la sicurezza e la riconciliazione politica. Quali sono gli Stati chiave? Il rapporto non li cita, ma sarebbe difficile escludere membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu come Russia e Cina, che si sono opposti alle guerre preventive di Bush. Per capire da che parte soffi il vento dei tempi nuovi ieri è accorso a Washington il più fedele alleato, il premier britannico Tony Blair, che incontrerà Bush oggi alla Casa Bianca.
Un’altra raccomandazione che al presidente americano potrebbe risultare indigesta è la ripresa dell’iniziativa per lo Stato palestinese. L’ordine di marcia scelto da Bush era questo: prima rovesciare Saddam Hussein e poi, soltanto poi, promuovere un percorso di pace che prendesse atto del fatto compiuto degli insediamenti israeliani. Il rapporto inverte i termini del problema: la soluzione in Iraq non può essere isolata dal contesto regionale: «Gli Stati Uniti non possono raggiungere i loro obiettivi in Medio Oriente senza intraprendere un nuovo impegno per un piano di pace globale». Il gruppo di studio sull’Iraq, costituito in aprile, è composto da dieci esperti dei due partiti. I presidenti sono il repubblicano James Baker, ex segretario di Stato del presidente George Bush padre, e il deputato democratico Lee Hamilton. Sono stati consultati quasi 200 testimoni ed esperti tra cui il capo del governo iracheno Maliki, il premier britannico Blair e il presidente del consiglio italiano Prodi.
Subito dopo la consegna del rapporto a Bush, la commissione ha incontrato i capogruppo al Congresso. L’opposizione democratica chiede l’autocritica del presidente. Al Gore, il candidato democratico privato della vittoria nelle elezioni del 2000, ha dichiarato: «Tutti i rapporti dicono le stesse cose: l’Iraq è un completo disastro, è il peggior errore strategico nella storia degli Stati Uniti». Ancor il 25 ottobre, a meno di due settimane dalle elezioni, Bush aveva sostenuto: «In Iraq stiamo vincendo». Adesso lo smentisce perfino il suo nuovo ministro della Difesa Gates, che si è presentato lunedì per la ratifica al Senato: «Non stiamo vincendo».