I riti e le liturgie del ‘900 nella riunione “segreta” di Segni

Mi era capitato di ascoltare, nei giorni scorsi, compagni che si scambiavano allusioni a Segni; poi ho letto su Repubblica che si sarebbe svolta una riunione della “maggioranza” di Rifondazione; da un intervento su Liberazione di Patrizia Sentinelli si apprende che c’è stata o è in corso un consultazione; non ho capito chi consulta chi e su che cosa. Poi leggo resoconti della riunione di Segni, di una relazione del segretario, di interventi di vari compagni. Mi pare di capire che hanno detto quello che avevano scritto su Liberazione ; ma, allora, perché e per chi fare la riunione di Segni?
Non me lo chiedo solo io e, credo, ci sia da ragionarci sopra.
In questo anno di partecipazione al Governo, è emerso in tutta la evidenza il conflitto tra le diverse anime che avevano dato corpo all’Unione; significativamente, questo conflitto si esplicita su un punto che appare metodologico e che, invece, rappresenta due concezioni della politica: una, intesa come strumento per realizzare obiettivi dichiarati e sui quali si era stipulato il patto con i cittadini e le cittadine, con le elettrici e gli elettori; l’altra, come esercizio del potere politico e delle funzioni di governo sostanzialmente a prescindere dai mandati ricevuti dall’elettorato.
Così l’autonomia della politica si trasforma in autonomia di ceto politico, che si rapporta con altri ceti e si fa casta e si incontra o confligge con altre caste: imprenditori, giornalisti, menagers privati o pubblici.
L’attivarsi di questo sistema di relazioni tra ceti finisce con il creare cortocircuiti, crisi, in ragione della interruzione dei rapporti “in verticale”, tra rappresentanti e rappresentati, tra politica e società.
Se il progetto del Partito Democratico, sostanzialmente, sconta questa crisi in ragione della propria concezione della politica, checchè ne dica il neoumanitarismo in versione veltroniana, per le forze di sinistra il problema è molto serio: si tratta della salvaguardia della propria ragion d’essere e del proprio definirsi.
Rifondazione Comunista sta attraversando l’esperienza di governo con tante sofferenze e tante inadeguatezze sulle quali sarebbe il caso di riflettere ulteriormente dopo averle nominate nella Conferenza di Organizzazione. Mi permetto di dire non nel chiuso di una riunione di una serie di compagne e compagni che si definiscono la maggioranza. Chi non c’era non è della maggioranza? E maggioranza di che, se è lecito?
Si da il caso che la crisi della politica e l’incapacità delle forze moderate di esprimere un progetto credibile di società diverso dall’amministrazione dell’esistente, abbia liberato e liberi forze politiche e sociali che alla sinistra fanno riferimento. E che altre forze di sinistra, diverse da Rifondazione, avvertano la necessità di ridefinirsi in un rapporto unitario capace di rappresentare una alternativa antiliberista, per molti anche anticapitalista, pacifista, ambientalista, non violento.
Possibile che questo metta in crisi la forza politica che con maggiore impegno e coerenza si è spesa per la rifondazione del pensiero critico, per la rifondazione della politica, non più appannaggio esclusivo dei partiti, ma agita dai movimenti con la loro autonomia, carsicità, mutevole articolazione delle priorità, ma, in ogni caso, umus di cui il Partito aveva deciso di essere parte? E se questo accade, non sarà la spia di una fragilità, di una debolezza, di una inadeguatezza che si pensa di occultare dietro una cortina identitaria? E se di ciò si trattasse, il luogo e il modo nel quale affrontare la questione, è una riunione “ad inviti” nella quale solo coloro che si ritengono e si riconoscono come depositari della linea e delle capacità di decisione, scambiano le proprie ragioni, definiscono i propri rapporti, pensano di trasferirli agli organi ufficiali e di chiamare allo schieramento in occasione del Congresso?
A me pare evidente che dopo la nascita di Sinistra Democratica, gli orientamenti del PdCI, i pronunciamenti dei Verdi, si siano determinate le condizioni per ragionare nei termini di “area di sinistra e di alternativa”.
In ogni caso mi pare indispensabile che sui problemi politici e sociali aperti con il Governo e con le forze moderate, dalle pensioni alla politica della casa, dal reddito per i giovani alle politiche scolastiche e del mercato del lavoro e alla Legge 30, dalla laicità ai diritti civili, queste forze della sinistra debbano agire unitariamente nelle istituzioni e nella società; in una parola, debbono “fare politica” in campo aperto.
Questa necessità di fare politica in campo aperto impegna tutti e ciascuno ad esporsi, a compromettersi in un programma e in un progetto unitario nel momento stesso in cui definisce la propria posizione sulle pensioni. Che proprio perché ha la valenza politica che richiamava Sansonetti nell’editoriale di sabato, definisce anche la natura dei soggetti politici in campo.
Il rischio di ridurre il processo di costruzione della sinistra in una operazione di “ceti politici”, è reale e si traduce nella autoconservazione. È tema di una riunione separata nella quale i sostenitori di tesi diverse si confrontano e definiscono come loro affare privato i rapporti di rappresentanza e di potere nel partito?
Alla Conferenza di Organizzazione abbiamo paventato questo e abbiamo criticato il nostro modo di essere: l’autoreferenzialità, i processi di cooptazione nella formazione dei gruppi dirigenti, la selezione di questi per “affinità e fedeltà” piuttosto che per capacità, la “separatezza” delle sedi e delle forme della decisione politica e della mediazione tra dirigenti. Abbiamo detto che questo era ancora parte di quella eredità del ‘900 da superare per portare a compimento il processo di Rifondazione Comunista.
Alla Conferenza della Sinistra Europea avevo sentito forti accenti in direzione dell’innovazione e della riforma della politica e del suo esprimersi come necessità per innervare l’alternativa di società che possiamo chiamare il socialismo del terzo millennio.
La riunione di Segni, forse persino al di la delle intenzioni, mi pare collochi quelle critiche e i progetti di innovazione come materie dell’accademia distinte dalla materialità della politica.
Siamo stati i primi e i più acuti ad analizzare la crisi della politica e la crisi dei partiti, a dire che quella crisi riguarda anche noi, e poi, a Segni, si celebrano i riti e si ripetono le liturgie di quei partiti novecenteschi e di quella politica “separata” come se nulla fosse.