L’aspra polemica in corso nel partito sul tesseramento in alcune federazioni, a ridosso dei congressi, riflette la problematica di un partito di opinione quale noi siamo. Le strettoie del confronto politico interno, come della proiezione autonoma del partito nella società nascono innanzitutto da questa condizione materiale.
Il fatto che, alla vigilia delle Regionali, una parte dei gruppi dirigenti pensi sciaguratamente di accrescere il proprio peso politico e contrattuale interno con pseudo-tesseramenti congressuali ad hoc, e che un’altra parte voglia o debba consentirlo, è indice di una situazione complessiva preoccupante per tutti. La domanda politica che si impone è: «Come uscire dalle angustie e dai pericoli del partito di opinione?».
Penso che l’idea di un Partito militante e di massa resti costitutiva per il nostro progetto di rifondazione comunista. Essa consente di coniugare esigenze diverse e vitali: una funzione esecutiva che promani dalle migliori energie militanti (la rete dei quadri); la minimizzazione, al suo interno, delle prerogative discrezionali dell’apparato; l’esposizione permanente del processo elaborativo e decisionale alla direzione collettiva (comitati di partito e assemblee tematiche, programmatiche e politiche delle organizzazioni di base). Un partito comunista, insomma, in cui la direzione politica sia indissociabile dalla capacità collettiva di rimuovere l’opportunismo istituzionale, il formalismo burocratico e l’immobilismo di base attraverso un protagonismo delle sue organizzazioni del quale i gruppi dirigenti siano promotori e recettori allo stesso tempo. Per questa via, il partito può diventare realmente parte della classe, difenderne l’autonomia sociale prima che politica, affermarne l’egemonia all’interno dei movimenti di lotta e delle culture critiche, inverando così la sua natura marxista.
Un tale partito, spingendo le lotte all’altezza del potere (governo politico dell’accumulazione) ma anche della sua critica (riproduzione proletaria indipendente dal mercato del lavoro), riconnetterebbe teoria dell’organizzazione e teoria della transizione, prassi rivoluzionaria e costruzione del blocco storico, necessità storica del socialismo e innovazione comunista.
La critica della rappresentanza è momento essenziale di una simile prospettiva. La critica di parte capitalistica della rappresentanza è la decisione sistemica. Nelle politiche emancipative di classe è la partecipazione democratica, non come complemento sociale della rappresentanza ma revoca antagonistica del suo limite corporativo. Tale revoca, naturalmente, non è decisione funzionalistica ma pratica politica di autonomia sociale, non riduzione di complessità sistemica ma rottura delle compatibilità che la strutturano.
Per queste ragioni considero la rivendicazione da parte del nostro Segretario del 51% come criterio di definizione della linea (e quindi di gestione del partito) molto grave. L’esasperazione del criterio di maggioranza, infatti, non è altro che l’esasperazione del principio di rappresentanza, il tentativo di venire a capo dei suoi inceppi con procedure autoritarie. Se prevalesse una simile impostazione disarmeremmo la nostra battaglia contro il sistema maggioritario e bipolare e conseguentemente distruggeremmo il senso stesso della partecipazione democratica. Questa, infatti, nei contesti bipolaristici si degrada inesorabilmente, finendo per oscillare tra opzione individualistica e intervento dei gruppi di pressione.
Il nostro partito rischia di andare al governo invocando come sola garanzia il sostegno di movimenti che apertamente rigettano questa prospettiva nei loro strati più combattivi. Essi esprimono un sentire di massa che individuerebbe in noi, specie dopo le elezioni, i responsabili più odiosi della repressione delle istanze dei movimenti da parte di un eventuale secondo governo Prodi. Unirsi elettoralmente al centro-sinistra contro Berlusconi è un dovere democratico. Governare con Prodi senza autonomia programmatica sarebbe per noi un suicidio politico.