I responsabili della deriva

Anche ieri è stato raggiunto un «accordo», l’ennesimo, tra Abu Mazen e Haniyeh con l’obiettivo di fermare gli scontri armati nelle strade di Gaza e scambiare i prigionieri.
Un film già visto, infarcito di frasi ormai entrate nel lessico quotidiano ma che fortunatamente non spinge la gente a schierarsi. Ben lontana dal lanciare segnali di assuefazione, la società palestinese esprime ogni giorno indignazione, rabbia e stupore. Sa che le responsabilità cadono sui vertici di entrambi gli schieramenti, Al Fatah e Hamas, su un presidente e un primo ministro di provata incapacità, ma sa anche distinguere i veri responsabili, i capibanda di un’area circoscritta in ciò che resta di Al Fatah. Un’area sostenuta e finanziata da Israele e dall’amministrazione americana che tiene sotto scacco la presidenza, istituzione che nel frattempo si è ampliata enormemente sottraendo competenze e potere al governo legittimo. Il tutto avviene in un quadro di incertezza dovuto alla paralisi totale di un parlamento che non raggiunge il numero legale perché Israele ha arrestato un numero cospicuo dei suoi membri, compreso lo stesso presidente, dimostrando che alla base c’è un piano lucido che mira all’assenza totale di qualsiasi istituzione palestinese legittima in grado di svolgere la funzione legislativa e di arbitro.
Abu Mazen non può insistere sulla sua estraneità da questo scenario, visto che tutti i responsabili materiali, sul piano politico e militare, di questa strategia della tensione sono consiglieri o fanno parte dell’entourage del presidente. Il suo partito è ormai il partito dei funzionari di uno stato che non è uno stato, delle persone che scambiano la patria per un posto di lavoro nell’amministrazione pubblica e uno stipendio sicuro, non importa come e a quale prezzo.
La maggioranza della popolazione non si identifica più nella struttura burocratica dello stato, ma anzi la vive come un corpo estraneo e opprimente, una fonte di lavoro parassitario come nei paesi arabi limitrofi, un apparato che in molti casi ricorda quello messo in piedi dall’occupazione israeliana prima degli accordi di pace. Una struttura corrotta, non trasparente né riformabile, come alternativa alla patria. Una struttura che tende a annullare le grandi e dolorose conquiste politiche e culturali che rappresentavano un patrimonio comune per tutti i movimenti democratici e progressisti della regione.
A 15 anni dall’inizio del processo di pace ci troviamo di fronte a questo raccolto amaro come unico risultato tangibile di quel processo. L’occupazione israeliana continua più feroce che mai, prospera la cultura della guerra e della forza e si è allontanata ancora di più la possibilità di ipotizzare la pace, anche come processo interiore. Anche in Israele questa situazione ha incentivato la corruzione, il malcostume, la chiusura verso un approccio basato sul dialogo e sulla normalizzazione della presenza di Israele nella regione.
Dopo l’invasione del Libano, la società israeliana ha scoperto che la scelta della guerra non rappresenta più una sponda sicura e è piombata in uno smarrimento che esprime una profonda crisi di futuro, oltre che di presente. L’insieme di tutti questi elementi compone un modello che nella nuova strategia dell’amministrazione Bush si è addirittura trasformato in modello da esportare in Libano, in Iraq e domani in Iran, aprendo sempre maggiori spazi a un movimento di opposizione di matrice islamica, figlio di questo degrado, come unica risposta all’arroganza e all’abuso di potere.
Ecco perché è giunta l’ora di chiamare i responsabili del degrado con nome e cognome e andare oltre una riflessione generica che continua a contrapporre i moderati ai radicali, quando in realtà i moderati sono spesso i corrotti e i radicali sono quelli che si oppongono a una situazione inaccettabile e a dir poco umiliante. Sotto la crosta di questo cupo scenario si nasconde una realtà alternativa, che non viene percepita ma già produce i primi sforzi per aggregare esponenti della politica e della cultura in nome dell’opposizione al disegno egemonico americano nella regione.
È il segno che la speranza, in termini tutt’altro che irrealistici, è l’ultima a morire e che per questo va sostenuta.