I ragazzi, il bandito e Portella

Milleduecento studenti di scuole medie superiori di tutta la Sicilia, quattrocento radunati nella sala di un grande cinema di Palermo, gli altri collegati in video-conferenza, riflettono sulla prima strage dell’Italia repubblicana, il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra. Scoccano sessant’anni di anniversario tra qualche mese, e la data è connessa alla ricorrenza dell’assassinio del segretario del Pci siciliano, Pio La Torre e del suo collaboratore, Rosario Di Salvo, che furono trucidati dalla mafia il 30 aprile 1982. È, per l’appunto, il centro studi e iniziative intitolato a La Torre ad avere coinvolto gli istituti medi superiori di tutta l’isola in conferenze-dibattito sfociate nella proiezione del film cult degli anni ‘70, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi.
La coincidenza non è solo cronologica. In pochi ricordano che La Torre qualche settimana prima di morire denunciò in un articolo pubblicato dall’Unità come la decisione di installare a Comiso una base di missili nucleari rischiasse di ricreare le condizioni di grave minaccia alla democrazia che si erano determinate nel dopoguerra, con un pullulare in Sicilia di spie, sabotatori e trame connotate dalla presenza di Cosa Nostra. Una situazione simile a quella che sfociò nel massacro di Portella. La Torre voleva che il primo maggio questa intuizione venisse condensata in due manifestazioni, contro la mafia e per la pace: Zangheri avrebbe dovuto celebrare a Portella i 35 anni dell’eccidio, lui – La Torre – sarebbe stato a Comiso con i pacifisti. La mattina del 30 aprile Pio si stava preparando per andare all’aeroporto di Punta Raisi ad accogliere Zangheri per parlarne, lo fermò un commando di assassini, e quel primo maggio ci fu a Palermo il primo tempestoso e dolente funerale di massa della lunga storia delle esequie per i “delitti eccellenti”. E l’omaggio a La Torre e Di Salvo si trasformò in una grande espressione di rabbia popolare e mobilitazione antimafia: l’unico oratore a non essere contestato fu Enrico Berlinguer.
Scorrono sullo schermo le immagini di un film importante non solo per la storia del cinema. Francesco Rosi fa una scelta di linguaggio innovativa e coraggiosa: Salvatore Giuliano, il bandito prima utilizzato dalla mafia e poi consegnato morto dalla stessa mafia allo Stato, consacrando la legittimazione della futura Cosa nostra come forza di ordine, nel film non si vede. Il protagonista è senza volto, ogni tanto si vede il bagliore di un impermeabile bianco, poi il corpo morto chiazzato di sangue, che il ministro Scelba e i carabinieri esibiscono come un trofeo, fabbricando attraverso un dossier mendace la falsa verità giudiziaria del «conflitto a fuoco». Il capobanda è stato ucciso nella notte e consegnato dai boss per ottenere in cambio impunità di lungo periodo.
Emanuele Macaluso, testimone dell’epoca, risale al precedente della strage mancata nel 1944 sulla piazza di un altro paese siciliano, Villalba: si trova quel giorno accanto a Girolamo Li Causi, il capo dei comunisti siciliani, che – tribuno dei contadini – sfida il capo della mafia, Don Calò Vizzini, in piazza. Gli sparano, tirano anche bombe a mano. Il centro del conflitto è il feudo, affidato dai baroni agli affittuari mafiosi, minacciato dalla riforma agraria e dal movimento contadino, in uno scontro sociale e politico che dà vita al primo movimento organizzato antimafia. Che sfocia nella vittoria elettorale delle sinistra siciliana nell’aprile 1947, e qualche giorno dopo a Portella nella contro-risposta dei proprietari terrieri e della mafia, che scelgono la strada dello stragismo inaugurando, accanto a complici e mandanti rimasti al coperto, l’uso politico degli eccidi e dei delitti. Connotato distintivo della destra italiana: unica nell’Occidente ad essersi avvalsa periodicamente di armi eversive e sanguinose e di complici e banditi senza volto.