L’ultima novità sulla vicenda dei magistrati americani cacciati per ragioni politiche è data dalle parole di Alberto Gonzales, il ministro della Giustizia di George Bush le cui dimissioni vengono chieste da democratici e (alcuni) repubblicani. «Il mio futuro – ha detto – è nelle mani del presidente». E il presidente, mentre si apprestava a lasciare il Messico, ultima tappa del giro in America latina, ha detto di essere «turbato» da ciò che è accaduto. Il che può voler dire che Gonzales è destinato a diventare il nuovo capro espiatorio immolato da Bush per salvarsi, ma può anche significare che considera sufficienti le dimissioni già avvenute del capo dello staff di Gonzales, il che salverebbe anche lui. Le prossime ore diranno quale strada sarà imboccata.
Intanto però c’è una cosa da rimarcare, elemento costante nel comportamento di questa amministrazione, e cioè l’uso disinvolto e cinico dell’orribile attacco terroristico subito dal paese sei anni fa, allo scopo di realizzare un «programma» che ha molto poco a che fare con la lotta al terrorismo e molto, invece, con una visione del potere presidenziale molto vicina a quella monarchica di qualche secolo fa. La prova, in quest’ultimo caso, sta nel meccanismo in virtù del quale la Casa Bianca riteneva di poter cacciare i magistrati che non le piacevano (e anche in virtù del quale nella mente di Harriett Myers, la sconsiderata signora che Bush voleva mettere nientemeno che alla Corte Suprema, balenò l’idea di licenziare l’intero corpo di 94 procuratori distrettuali).
La fonte di tutto è infatti una norma contenuta nel famigerato Patriot Act, cioè l’insieme di leggi «necessarie a evitare un altro 11 settembre», che è stato rinnovato alcuni mesi fa. Il presidente, dice quella norma, può rimpiazzare i procuratori distrettuali scavalcando le normali procedure, compresa quella che richiede l’approvazione del Senato sul nome della sostituto prescelto. Qualcuno, a quanto risulta, cercò di sollevare il problema che in questo modo il potere del presidente andava oltre le sue prerogative costituzionali, ma fu zittito con l’argomento che quella novità era necessaria perché poteva capitare che un procuratore fosse «ucciso dai terroristi» e non si poteva perdere troppo tempo nel nominare un sostituto. E siccome la battaglia per il rinnovo del Patriot Act era asperrima, quella norma finì per essere trascurata come una ipotesi improbabile su cui non era il caso di soffermarsi troppo. Il solito «fidatevi di noi» che con gente come Bush e Dick Cheney non si può proprio adottare.
E a proposito di Cheney, qualcuno ricorda la faccenda delle intercettazioni telefoniche compiute senza autorizzazione giudiziaria? Anche in quel caso la risposta fu che il Congresso aveva autorizzato il presidente a ricorrere a «tutti i mezzi» contro il terrorismo e lui li stava semplicemente usando. Noi – risposero i parlamentari – pensavamo di approvare l’attacco militare all’Afghanistan, non l’ascolto delle telefonate dei cittadini. Si discusse per un po’, finché pensò proprio lui, Cheney, a spiegare che la legge che imponeva l’autorizzazione giudiziaria (varata nel 1978, dopo i fasti di Richard Nixon) era stata «un errore che doveva essere corretto». Insomma, ciò che è accaduto l’11 settembre 2001 continua ad avere un significato doppio: per i cittadini è una fonte di dolore e paura, per Bush e Cheney è un terno al lotto da incassare.