I precari dei call center e un futuro possibile

La vicenda dei call center, per le sue dimensioni e per la rilevanza dei servizi che rendono nella società della comunicazione, contribuisce a far chiarezza su due aspetti importanti dell´attuale mercato del lavoro. Innanzitutto appare evidente che gran parte dei contratti a progetto, che sono formalmente contratti di lavoro autonomo, vengono utilizzati dalle imprese per mascherare delle occupazioni che hanno tutte le caratteristiche del lavoro dipendente, dai vincoli di orario alla totale subordinazione gerarchica, dalle mansioni rigidamente regolate al pagamento a cottimo. E´ vero che l´art. 62 del decreto attuativo 276/2003 della Legge 30 è assai generico, e ammette varie interpretazioni di che cosa sia un progetto, ovvero un programma o una fase di esso. Ma nessuna contorsione interpretativa può spacciare come svolgimento di un lavoro autonomo delle mansioni regolate rigidamente in ogni singolo elemento dalle direzioni aziendali, come avviene nella quasi totalità dei call center.
Un secondo aspetto che la vicenda dei call center porta a chiarire è che la famosa flessibilità del lavoro, intesa quale possibilità per un´impresa di variare l´impiego di forza lavoro in relazione all´andamento del mercato, in questo caso come in tanti altri c´entra ben poco. Quello che è principalmente in gioco è il puro e semplice costo del lavoro. Essendo considerati formalmente degli autonomi, i lavoratori e le lavoratrici con un contratto a progetto non hanno diritto né all´assistenza malattia, né al trattamento di maternità, né alle ferie retribuite. Pertanto essi costano in media alle aziende meno di 10 euro l´ora, mentre il lavoratore dipendente, per il quale le imprese debbono versare i contributi relativi alle suddette prestazioni, ne costa più di 16.
Chariti questi punti, il discorso si sposta sulle conseguenze che la vicenda potrebbe avere in diversi ambiti. Su una non ci dovrebbero essere molte discussioni: il lavoro a progetto va eliminato, ovvero trasformato in un normale contratto di lavoro dipendente, in tutti quei casi in cui si verifichi che esso – in violazione della stessa Legge 30 – funge da mero camuffamento di comodo di una prestazione lavorativa subordinata. Come l´ispettorato del lavoro ha richiesto nel caso dei call center, con una iniziativa che andrebbe però estesa ai tanti casi analoghi che esistono nelle aziende – nonché nella Pubblica Amministrazione.
Più problematiche sono le reazioni cui le imprese del settore potrebbero dar luogo laddove fossero obbligate a breve termine a soddisfare il suddetto obbligo. Alcuni loro rappresentanti hanno subito adombrato sfracelli, parlando di 60.000 lavoratori a progetto e 25-30.000 dipendenti i cui posti di lavoro sarebbero messi a rischio se la richiesta dell´ispettorato dovesse venir soddisfatta. Lasciando intravedere anche un ricatto: se ci aumentano il costo del lavoro, noi partiamo per l´estero. Ora non v´è dubbio che un aumento di oltre il 60 per cento del costo del lavoro, in un settore dove esso incide in misura elevata sul costo finale del servizio, rappresenti un aggravio rilevante. Tuttavia, a questo riguardo, due cose sono difficili da credere. La prima è che le grandi aziende industriali, le banche, i giganti delle telecomunicazioni e i comparti della PA che utilizzano i servizi dei call center, con modalità che fanno di questi un elemento essenziale della loro catena di creazione del valore, sarebbero indotti a tagliare drasticamente le commesse se questi aumentassero il prezzo dei servizi stessi. Solo se se si verificasse tale evento si avrebbero seri effetti negativi sull´occupazione nei call center. Peraltro è più probabile che i loro clienti magari si lamentino, ma poi si adeguino.
La seconda cosa che si stenta a credere è che imprese così innovative e dinamiche come quelle che gestiscono i call center, capaci di creare dal nulla 250.000 posti di lavoro in pochi anni, verrebbero a trovarsi in serie e durevoli difficoltà a causa d´un aumento del costo della forza lavoro che già impiegano. Di certo esse posseggono le competenze e le risorse per elaborare strategie industriali idonee ad affrontare efficacemente l´ostacolo. E a ben vedere – l´immagine conta, nella società della comunicazione – non conviene a loro nemmeno lasciar intendere che i loro bilanci si reggono solo in base a quella che va definita, nel migliore dei casi, come una disinvolta applicazione degli articoli di legge relativi al lavoro a progetto. Sicuramente sono in grado di reggersi con altri strumenti, organizzativi e tecnologici.
Rimane ovviamente il problema di come gestire la transizione dai finti lavori a progetto a veri contratti di lavoro dipendente, nel settore dei call center come in altri. Al ministero del Lavoro e ai suoi ispettorati compete di far rispettare la legge, cercando semmai di farla evolvere allo scopo di migliorare le condizioni di impiego, i diritti, le tutele di chi lavora. Ma un ruolo più ampio in tale ambito dovrebbe di certo essere attribuito ai sindacati, invertendo la spinta a renderlo sempre meno significativo insita per contro nella legge 30. Dopotutto sono essi che conoscono meglio di chiunque altro le molteplici realtà del lavoro in azienda, e che ogni giorno hanno direttamente a che fare con i costi umani della precarietà.