Lo stallo prefigura un fallimento dei negoziati». Così titolava questa mattina il South China Morning Post. Alle dieci del mattino, a Victoria Park, in gruppetti suddivisi per appartenenza linguistica, gli attivisti commentano i giornali, analizzano le conseguenze dello stallo e, soprattutto, la durata di questa temporanea vittoria. I Paesi Acp – che sta per Africa, Carabi e Pacifico manterranno la posizione? Faranno saltare il banco come a Cancun? E cosa faranno India e Brasile che, nel 2004, firmarono gli accordi di luglio e a Hong Kong si sono mostrati fin troppo disponibili ad aprire i negoziati sulle nuove liberalizzazioni? In televisione, di prima mattina, sono comparsi i volti stremati dei negoziatori americani ed europei solo per dire che, nella notte, nessun accordo era stato raggiunto. Così, mentre i contadini coreani, le donne e i pescatori filippini e indonesiani preparano l’ennesima manifestazione – con tuffo finale ormai diventato rituale – gli Acp tengono una conferenza stampa in cui annunciano, con parole durissime, la loro presa di posizione. «Europei e americani devono prendersi la responsabilità per le orde di profughi che si riverseranno sui loro confini quando avranno finito di distruggere le nostre economie», dichiara il rappresentante del Camerun. «Siamo stati emarginati per troppo tempo, non permetteremo che accada di nuovo» rincara quello delle Mauritius. «Gli Aiuti al commercio non possono sostituire i negoziati» fa eco il negoziatore del Belize che aggiunge «non ci lasceremo dividere per pochi spiccioli». E tutti, ma proprio tutti, agitano lo spettro di Cancun e insistono sul fatto che, dopo di allora, non è stata accolta nessuna delle richieste dei Paesi produttori di zucchero, banane e cotone. Al centro dello scontro ci sono come al solito le produzioni sussidiate del Nord del mondo, a fronte di un crollo dei prezzi che sta letteralmente mettendo in ginocchio i contadini di Paesi che sull’agricoltura puntano per sopravvivere. Gli africani, presenti in massa alla conferenza stampa degli Acp, insistono sul cotone e chiamano in causa gli Stati Uniti con i suoi produttori iper-sovvenzionati: ben 5 miliardi di dollari per 27 mila agricoltori – l’Europa dal canto suo di milioni ne stanzia “appena” 700 – mentre in Africa sono 15 milioni le persone che vivono della filiera cotoniera. Non ci sono contentini o pacchetti-sviluppo che tengano anche perché il gioco delle scatole vuote è stato definitivamente smascherato: il Consiglio d’Europa ha infatti fatto sapere a Mandelson che di soldi non ce ne sono, mettendo fine al “chi offre di più?“ del primo giorno. Sul cotone la palla passa quindi al negoziatore americano che però, come Mandelson, ha le mani legate dal voto del Congresso. Tanto è vero che Portman cancella la conferenza stampa prevista per le 13 e si chiude nelle stanze verdi per colloqui “open ending”, ovvero a oltranza, con i Paesi Apc. I quali, oltre a chiedere la fine dei sussidi all’esportazione del cotone, rilanciano e mettono in discussione anche l’architettura degli aiuti alimentari utilizzati da Washington per sovvenzionare in modo indiretto i propri produttori e per invadere i mercati poveri di semi geneticamente modificati.
Alle 14 e 30 la conferenza stampa degli europei non aggiunge nulla di nuovo. Mandelson dichiara che per l’Europa è «impossibile proporre qualunque data sulla fine dei sussidi finché Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda non metteranno mano alle loro politiche agricole». Alle 15 e 30, nuovo colpo di scena: conferenza stampa congiunta dei G90 (ovvero Acp, gruppo africano e Paesi meno sviluppati, i cosiddetti Ldc) insieme a India e Brasile, con questi ultimi schierati, come a Cancun, dalla parte dei più deboli. Abbandonata ogni retorica liberista il negoziatore di Brasilia Celso Amorin chiede «l’impegno a eliminare i sussidi al cotone entro una data che va definita ora» enfatizzando «la posizione comune, nel rispetto delle differenze dei singoli Paesi». Il negoziatore indiano parla addirittura di «momento storico per i Paesi in via di sviluppo che possono, anzi devono, mettere fine ora, in questa ministeriale, all’iniquità che contraddistingue da sempre le relazioni commerciali fra Nord e Sud del mondo». Poi, sollecitato dalle domande dei giornalisti, Kamal Nath rincara la dose: «ne abbiamo abbastanza di promesse e di retorica. Tanto, quando ci sediamo a trattare, questi signori pensano di portare a casa un accordo senza concedere niente. Sia chiaro, non si tratta di rimandare il tutto di qualche mese: o viene messo sul piatto qualcosa di concreto, o il ciclo di Doha finisce qui». Il gruppo che fece fallire la ministeriale messicana, il cosiddetto G20, sembra rinato, solo che qui aggrega un fronte di ben 110 Paesi. Sarà la solita arroganza dei Paesi ricchi, sarà la crisi sociale che avanza e preme sui rappresentanti governativi dei Paesi del Sud del mondo, stavolta è chiaro che bisogna mettere sul piatto qualcosa di concreto. Al centro delle trattative c’è il cotone «forse l’esempio più lampante dell’iniquità che caratterizza gli scambi commerciali» come sottolinea Monica Di Sisto di Fair, in un seminario dedicato proprio alla questione e organizzato insieme a Oxfam, Roba e Artisans du monde. Il cotone è infatti al centro di una crisi economica che sta mettendo in ginocchio i Paesi dell’Africa occidentale, invasi dalle produzioni sovvenzionate direttamente e «indirettamente, sotto forma di aiuti alimentari di UsAid» ha denunciato nell’incontro Ibrahima Coulibaly «che acquista le eccedenze delle corporation e approfitta della fame per smerciare gli ogm». E mentre le organizzazioni finanziarie internazionali pretendono dai governi africani l’eliminazione di qualsiasi sostegno statale, il prezzo del cotone continua a scendere provocando una vera e propria catastrofe economica. In Burkina Faso, sebbene le esportazioni dal ‘94 siano raddoppiate l’incidenza della povertà nelle aree rurali è salita del 51 per cento, mentre nel minuscolo Benin la riduzione del 40 per cento nel prezzo del cotone ha precipitato 334 mila persone al di sotto della linea della povertà. I negoziatori continuano a trattare a oltranza rinchiusi nelle stanze verdi mentre la protesta arriva fin nella hall del palazzo della Convention. C’è occasione perfino per un grazioso siparietto con il rappresentante di una fantomatica ong pro-business che cerca lo scontro fisico: sintomo del nervosismo provocato dai milioni di dollari che vanno in fumo o pietoso tentativo di provocare, con uno scontro, l’allontanamento dei rappresentanti dei sindacati agricoli dal palazzo. Sullo sfondo l’ingombrante presenza del padrone di casa resta silenziosa. E’ la Cina a dare forza al nuovo fronte del Sud del mondo? Al momento le talpe non segnalano alcuna pressione sui delegati dei Paesi in via di sviluppo. Ma del resto, ce n’è bisogno? Con il suo piano Marshall per l’America latina Pechino ha già messo sul piatto 100 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. E sono soldi veri, non come quelli dei “pacchetti sviluppo” europei o americani. Nel 2003 le esportazioni brasiliane in Cina ammontavano già a 4,5 miliardi di dollari, situando il paese al terzo posto nella lista dei mercati esteri preferiti dal Brasile. Agli accordi commerciali bisogna aggiungere l’apertura dei negoziati fra la Cina e il Mercosur per un trattato di libero scambio, un’iniziativa che si mette decisamente in rotta di collisione con l’Alca, il trattato di libero scambio delle Americhe a guida statunitense. Come ha dichiarato più volte in questi giorni Kamal Nath «l’architettura economica globale è cambiata» e i tempi del duopolio Usa-Ue stanno per finire. La nuova superpotenza economica non ha bisogno di mostrarsi: è ovunque.