” Il libro più organicamente anticomunista che io abbia letto”: questo lapidario giudizio di Luigi Pintor mette a fuoco con precisione l’essenza dell’ultimo libro di Marco Revelli, sul quale è aperta un’appassionata discussione. Com’è naturale, i commenti hanno coinvolto in primo luogo le tesi sostenute nel libro. A questo proposito Pintor ha scritto quel che si doveva. Alle sue considerazioni si può aggiungere solo una nota marginale. Vale la pena di sottolineare la piena consonanza tra la lettura del Novecento compiuta da Revelli e la tesi fondamentale del revisionismo storico (nelle versioni di Nolte e di Furet): una consonanza che Revelli non occulta e anzi proclama. L’idea centrale del revisionismo storico (la simmetria tra fascismo e comunismo e la maggiore responsabilità di quest’ultimo, connessa al suo primato cronologico) corre come un basso continuo dentro il ragionamento di Revelli e ne esce persino radicalizzata. Non solo il risultato del nazismo (Auschwitz) “non è stato diverso” da quello prodotto dal “comunismo novecentesco”, ma quest’ultimo ha usato “le armi degli altri (dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni) […] peggio degli altri”. Il comunismo è stato il gemello siamese del fascismo e dei due il più malvagio: si può non essere d’accordo con Revelli, non certo imputargli reticenza.
Se c’è una discordanza tra Nolte, Furet e Revelli, essa attiene al registro dell’argomentazione, che nei primi è comunque riferita al piano storico, mentre in Revelli si svolge prevalentemente sul piano ideologico. Oltre il Novecento è un libro di filosofia o di teologia della storia. Le categorie che ne articolano il discorso sono dichiaratamente filosofiche (o teologiche). Revelli non scrive: lavoro, politica, storia, guerra, organizzazione; ma: Lavoro, Politica (anzi, “il Politico”, nemico del “Sociale”), Storia, Guerra, Organizzazione. Il suo ragionare procede per simboli e metafore, con largo dispendio di suggestioni letterarie. Non è una scelta casuale, perché scopo del libro non è compiere una ricostruzione storica del Novecento, bensì fornire una interpretazione del suo spirito e dell’essenza della modernità, che con il Novecento si sarebbe conclusa. A Revelli non interessa mostrare catene fattuali e nessi causali, ma affermare un convincimento: l’idea che la storia dell’ultimo secolo si sia svolta sotto il peso della maledizione della volontà di potenza della Ragione moderna: di qui il trionfo della violenza nichilistica del Lavoro e della Tecnica, violenza di cui il comunismo pare a Revelli costitutivamente impregnato. La dimensione teologica del discorso, più ancora che filosofica, emerge qui evidente.
La vicenda storica è risolta in un dramma manicheo, in uno scontro tra il Male (il Potere col suo “volto ferrigno”, la “razionalità calcolistica” col suo delirio prometeico, la “ferocia burocratica” del Militante) e il Bene, che fragile traluce nell’elegia della “socialità d’arcipelago” e nelle azioni del Volontario, forte della propria debolezza, ancora “incerto e vacillante” nell’incedere, ma puro nell’intenzione di restituire la vita a un “libero gioco tra identità autonome”.
Sin qui le posizioni di Revelli, ormai note, che ciascuno valuterà. Esse tuttavia non esauriscono il quadro delle questioni poste dal libro, che appare invece assai più complesso. Era giusto dapprincipio concentrarsi sulle argomentazioni di Revelli, ma ora bisogna prendere in considerazione l’intera problematica che il suo scritto solleva, e che insieme alle tesi chiama in causa la figura stessa dell’autore. Il punto (è ovvio ma, a scanso di equivoci, è bene ribadirlo con la massima chiarezza) non concerne la persona. E’ fuori discussione la legittimità di qualunque idea politica e di qualsiasi giudizio storico che non leda altrui diritti.
Il punto è strettamente politico, e lo stesso Pintor lo mette in rilievo quando pone l’accento sul fatto che questo libro “è scritto da una intelligenza di sinistra antitetica alla cultura dominante”, e quando si sofferma sulla “forza di suggestione” che proprio da tale circostanza discende. Un libro che riesce a far parlare di sé non è solo il suo contenuto: è anche un accadimento nel quale conta molto la figura del suo autore, quando (come in questo caso) si tratta di un personaggio non ignoto al pubblico dei lettori. E’ questa unità tra contenuto e autore che va ora presa in considerazione, poiché pone due questioni, entrambe di grande rilevanza.
Si tratta, in primo luogo, di interrogarsi sui presupposti. Di chiedersi che cosa stia alle spalle dell’approdo di un intellettuale della “sinistra antagonista” all’anticomunismo più radicale. Di domandarsi come sia stato possibile che il travaglio dell’intellettualità “critica” abbia condotto alla liquidazione totale della vicenda rivoluzionaria, alla criminalizzazione di “tutte le esperienze novecentesche di “rivoluzioni riuscite” e persino al ripudio della storia del movimento operaio in quanto “componente più attiva” di una sinistra contaminata dalla violenza del Lavoro e dell’Organizzazione. L’introiezione dello schema revisionista non è una spiegazione sufficiente, né lo è un altro importante aspetto che Pintor a ragione sottolinea, il permanere dell’analisi “all’interno dell’universo unidimensionale” contro cui essa intenderebbe invece svilupparsi.
Se “vincono le metafisiche e le religioni”, è anche perché l’autocritica del movimento operaio e comunista è venuta assumendo, nel corso degli ultimi vent’anni, i toni di una santa inquisizione, rompendo gli argini dell’equilibrio e dell’oggettività. Difendere questi argini non era certo agevole, anche perché i conti con il passato erano drammaticamente seri e li si doveva fare sotto l’incalzare dell’avversario. Ma non era nemmeno inevitabile che si giungesse all’autoflagellazione e all’odio di sé che oggi celebra un autentico trionfo.
Come in una reazione a catena, il riconoscimento degli errori e dei crimini si è trasformato nella complessiva messa sotto accusa della rivoluzione, quindi nella denuncia della stessa teoria. Poco prima di questo libro, l’ex-segretario dei Ds ha affermato che “sarebbe stato meglio” che l’Ottobre bolscevico non si fosse compiuto. Ora leggiamo che esso è stato l’avventura di “un pugno di uomini” che, avendo conquistato il potere “per molti versi fortuitamente”, lo hanno poi difeso con la più spietata ferocia, ricorrendo a spedizioni, repressioni, rastrellamenti, e facendo ricorso a “una violenza mai registratasi in alcun regime ‘borghese'”. Ieri è stato detto che il comunismo è “incompatibile con la libertà”. Oggi leggiamo che, alla luce dell’esperienza storica, è “l’identità stessa del comunismo ideale” ad apparire “culturalmente improponibile” e ad aver “consumato ogni credibilità”. Questi giudizi non si comprendono come mere conseguenze di una intransigente autocritica. Nella misura in cui l’ansia di distruggere fa piazza pulita di qualsiasi distinzione e induce a sentenze tanto sommarie, emerge che il meditare sulle colpe è talvolta talmente doloroso da spingere all’abiura e alla trasfigurazione delle posizioni contro le quali si era prima militato.
Ma è il secondo ordine di questioni a meritare la maggiore attenzione, se è vero che il passato è importante ma è sul futuro che si gioca la partita. Quali conseguenze si può prevedere sortiranno da questa situazione? Quali effetti avrà questo libro, per le affermazioni che contiene e per il posto occupato dal suo autore nel panorama ideologico e politico – effetti di breve, considerata la delicatezza del momento, la fase elettorale, l’offensiva di una destra pericolosa per la stessa tenuta della democrazia; ed effetti di lungo, relativi alla difficile ricerca di ragioni che possano restituire al movimento di classe fiducia e capacità di orientamento?
Rispetto al primo quesito, c’è solo da confidare nella poca dimestichezza dell’avversario con i libri. Ma se a qualche esponente dell’armata berlusconiana dovesse capitare di scorrere pagine nelle quali i giudizi formulati dal Libro nero del comunismo sono ripresi e anzi aggravati ad opera di una “intelligenza di sinistra”, non è difficile immaginare che la campagna elettorale della destra potrebbe trarne beneficio. Non è male poter dire che ormai la stessa sinistra “antagonista” ammette che il comunismo è di per sé, consustanzialmente, fonte di devastante violenza, e che tale connaturata potenzialità ha di fatto causato tragedie ancora più cupe di quelle generate dal nazismo.
Quanto al lungo periodo, vale la pena di considerare con cura i rischi incombenti. Senza volere drammatizzare, ormai è in gioco non più soltanto l’identità culturale e politica dei comunisti, ma la possibilità stessa di pensare e agire in vista della trasformazione della società e del superamento del capitalismo. A quanti hanno ritenuto opportuno brandire questo libro come un’arma per piccole scaramucce ideologiche è sfuggito l’aspetto cruciale e più inquietante. Il comunismo è il bersaglio visibile di un’offensiva che mira in realtà a un obiettivo molto più ambizioso. Sotto accusa è la modernità, ma che cos’è la modernità contro cui si scaglia? Se liberiamo il discorso dagli artifizi polemici, emerge con chiarezza che l’attacco muove contro l’idea che si possa agire collettivamente per migliorare il mondo, che masse di individui possano muoversi in forma coerente ed efficace in vista della propria liberazione, che la storia possa essere il luogo della loro prassi trasformatrice. Certo, sul banco degli imputati figurano il “produttivismo industrialista” e la “razionalità burocratica”, il nichilismo della tecnica e la hybris della ragione strategica. Ma se si gratta la superficie, ben altri nodi vengono al pettine.
Il “peccato mortale” della modernità è avere “concepito la Storia come prodotto umano” e avere “tentato di produrla secondo gli imperativi di un costruttivismo totale”. E’ avere pensato che masse di diseredati potessero irrompere sulla sua scena e agire da protagoniste, giacché questo pensiero si è tradotto nello scardinamento di un mondo migliore, reso umano e libero proprio dall'”eterogeneità premoderna”, da una “stratificazione sociale” a torto avversata come sinonimo di iniqua ineguaglianza. La colpa capitale è stata avere creduto di poter decidere il corso degli avvenimenti, non averne accettato l’incoercibile potenza: è stata avere levato lo sguardo verso l’alto, distogliendolo dal piccolo mondo delle “consolidate abitudini”, del “consumo comunitario”, della “micro-cooperazione quotidiana”. Per questo si è scatenata una violenza inenarrabile, la furia di una nemesi fatale. Dunque basta con la pretesa di fare la storia, basta con l’illusione di “conquistare” la società, basta con la “retorica del “soggetto collettivo”.
Sia chiaro: un libro non potrebbe da solo radicare, nella mente di tanti, questi o altri convincimenti, nemmeno se fosse segnato da tragica grandezza. Ma qualsiasi libro può dare impulso all’ulteriore diffusione di idee recepite, tanto più se a scriverlo è un intellettuale riconosciuto e apprezzato. Questo è il vero conto che il libro di Revelli ci presenta e che non sarà comunque facile pagare. O risaliremo la china della dissipazione della nostra intelligenza critica, e sarà dura fatica; o persevereremo nell’irresponsabilità, lasciando che altri continuino a fare la storia (anche la nostra), e a costruire il mondo nel proprio interesse.