I passi indietro sulla riforma

La legge di riforma della polizia 121/81, in questi ultimi anni di passi indietro ne ha fatti tanti, anche e in ragione del fatto che la politica, e le varie cittadinanze attive non hanno ancora colto la portata dell’arretramento riformista, e dei guasti, che ciò può procurare al Paese.
Questo sta avvenendo nello smarrimento ideale e culturale che attraversa la nostra società, le forze di polizia stanno diventando una sorta di totem mediatico istituzionale, collettore di tutte le contraddizioni sociali, il «primo biglietto da visita dello Stato». La sicurezza come una sorta di moderno e aggregante sentimento religioso ai cui delegati di volta in volta si chiede di saperne interpretare le parti, le aspettative e le paure. Una religione con le proprie tematiche e credenze. Un vero e proprio sistema fatto di dogmatiche certezze e ritualità, senza mai l’ombra del dubbio o l’eventualità di venire smentiti.
La polizia e taluni suoi organi gerarchici, forti dell’incondizionato plebiscito popolare e politico, amplificato con il sistema elettorale maggioritario, possono pensare di potere tutto, di sostituirsi a tutto (parafrasando l’opera di Valerio Evangelisti «Noi saremo tutto»). Potrebbe essere questa la chiave di lettura della progressiva emarginazione, nel contesto professionale della polizia di stato, che sta subendo il ruolo tecnico scientifico. Vera novità nel singolare scenario dei corpi dello Stato, che voleva essere fin dalla sua istituzione una sofisticata idea organizzativa per una maggiore professionalità della polizia e una proposta plurale dell’istituzione da frapporre a quello di corpo di polizia ridondante di cultura della separatezza.
Fin dagli albori della riforma erano state previste le difficoltà di conciliazione organizzativa fra le cosiddette alte gerarchie ed un autonomo ragionamento tecnico scientifico interno all’istituzione, le difficoltà di sintonia fra i cosiddetti ruoli ordinari e quelli tecnici; ma che a distanza di 26 anni dalla riforma, in una società dominata dalla innovazione tecnologica, i primi pensino di potere fare a meno delle autonome competenze e conoscenze dei secondi, appare perlomeno singolare. Si vorrebbe tornare a prima della riforma, ad un settore specialistico interno al ruolo ordinario di polizia, una massa indistinta sotto le dirette responsabilità dei questori, dei prefetti, ecc. Peraltro, disattendendo allo spirito della riforma, in tutti questi anni nessun dirigente tecnico è mai assurto a responsabilità di direzioni centrali specifiche.
La questione non è solo il tipo di funzionalità della logistica in polizia, ma riguarda la trasparenza organizzativa finanziaria della stessa istituzione e una chiave di lettura della mentalità gestionale organizzativa.
Diversi sono i fatti comprovanti questa tesi, a partire dall’istituzione di una commissione interna di riorganizzazione del ruolo «tecnico scientifico», presieduta da un prefetto, composta da alti papaveri della polizia con l’aggiunta di un appartenente ai ruoli sanitari, nonché la recente istituzione di uffici tecnico logistici presso le questure, diretti in gran parte da personale del ruolo ordinario.
Da ultimo, estremamente significativa sul piano della mentalità organizzativa, la prospettiva di trasferimento dell’autocentro di polizia di Roma in zone periferiche della città per fare posto nei suoi locali al museo delle auto storiche: la propaganda e l’immaginario al posto dei bisogni organizzativi quotidiani. La crisi di investimento e di prospettiva di «conoscenza tecnologica e innovativa» va di pari passo con quella della formazione professionale, diventata sempre di più risorsa comprimibile; chiusura di scuole e di corsi di formazione, mancanza di materiale didattico: dai circa 30 miliardi di lire di spesa di dieci anni fa, si è pervenuti ai 10 milioni di euro del 2005 agli 8 milioni del 2006 ai 6,50 del 2007.
Nello scenario autoreferenziale, anche i prefetti dettano la propria linea culturale con convegni, come quello tenutosi il 17 aprile presso la scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno, con la logica del «licenziare i fannulloni» quale via per una pubblica amministrazione finalmente efficiente.
Dopo un secolo circa si torna al «cadornismo» dal nome del generale L. Cadorna, che attribuiva ai soldati semplici la responsabilità della disfatta di Caporetto. I problemi non passano da lì come non passano dal sistema concorsuale dei direttivi, anche se molto si potrebbe dire in tema di cordate e di cognomi illustri che si ripetono nella P.A. Si guarda alla Francia ma rischiamo di comportarci come a Caporetto, guardando i problemi solo dall’alto verso il basso.

* della Segreteria Nazionale del Siulp