I nuovi Abu Ghraib e la fiorente industria dei gulag

Finalmente i fan della civiltà occidentale possono esultare: Abu Ghraib, il carcere della polizia politica di Saddam famoso per le foto degli iracheni torturati dai soldati della Us Army, è ufficialmente chiuso. La decisione è stata salutata dalla stampa Usa come una “pietra miliare” verso il recupero di un’immagine alquanto appannata dalla squallida vicenda. Purtroppo, intenti com’erano a seguire le sottigliezze del dibattito sull’impiego della tortura e sulla convenzione di Ginevra, ben pochi giornalisti hanno perso tempo a chiedersi dove fossero finiti gli ospiti di Abu Ghraib: quasi tremila persone detenute da mesi senza che nessuno si sia nemmeno degnato di formulare le accuse – per non parlare d’incontrare un avvocato o di avere contatti con le proprie famiglie. Sono stati liberati? Sono stati consegnati alla giustizia irachena perché segua il suo corso? No, sono stati semplicemente trasferiti a Camp Cropper, super-carcere appena finito di costruire nella base militare vicina all’aeroporto internazionale di Baghdad. Ed è proprio nel nuovissimo Camp Cropper che potrebbe essere finito anche il fotoreporter iracheno Bilal Hussein, premio Pulitzer sparito da cinque mesi in quel Triangolo delle Bermuda giuridico che sono le prigioni statunitensi perché sospettato di “collaborazione con gli insorti”. Anche per lui, come per gli altri iracheni, non ci sono in vista né accuse formali né processi.
Pare che il super-carcere da 60 milioni di dollari appena finito di costruire sia un esempio d’innovazione tecnologica ma è impossibile saperne di più: nessun giornalista ha ritenuto opportuno spenderci nemmeno una parola né andare sul posto a dare un’occhiata. Del resto non è stato ritenuto nemmeno necessario discuterne la costruzione davanti al Congresso malgrado sia una struttura permanente costruita integralmente con i soldi dei contribuenti. La qual cosa, è inutile dirlo, rende ininfluenti – se non decisamente ridicoli – tutti i discorsi sulla ricostruzione del paese e sul possibile ritiro dei “nostri ragazzi” dal pantano iracheno. Al contrario, in un continuo e dispendioso processo di ristrutturazione, le basi militari stanno diventando sempre più “permanenti” – anche se il Pentagono si guarda bene dal definirle in questo modo, preferisce se mai “enduring camp” – e sempre più somiglianti a piccole cittadine del Midwest con autobus, palestre, stadi, Burger King e Pizza Huts. Per non parlare dell’ambasciata al centro di Baghdad, probabilmente la più fortificata della storia, con tanto di complessi residenziali, cinema e discoteche per rallegrare le 3mila 500 persone che ci lavorano.

Nel frattempo la battaglia per la conquista dei “cuori e delle menti” è stata definitivamente persa fra Guantanamo e Bagram, ovvero fra il gulag statunitense più famoso e anch’esso in via di ampliamento – 30 milioni di dollari per una nuova ala super-sicura – e il centro di prima accoglienza e prima tortura gestito dall’aviazione statunitense in Afghanistan. In mezzo le nuove prigioni come Camp Cropper e Camp Bucca, anche quest’ultimo in territorio iracheno e anche quest’ultimo in via di ampliamento. Un sistema d’internamento spalmato sull’intero globo nel quale sono state risucchiate circa quindicimila persone, senza contare le prigioni gentilmente date in subappalto alla Cia da governi compiacenti che, secondo Bush, sono attualmente vuote. Quindicimila persone – 14mila in Iraq, 500 (o più) in Afghanistan e 500 a Guantanamo – detenute senza processo e senza accuse non sono certo un buon biglietto da visita per chi sta cercando di esportare il proprio modello democratico in tutto il mondo.

Che l’amministrazione Bush abbia fatto di tutto per distruggere quel poco (o quel tanto) che ci piaceva dell’America non è una novità. Il vero problema è che non sarà affatto facile cambiare un sistema che è diventato prima di tutto un enorme business, come fa notare Tom Engelhardt, scrittore-giornalista e direttore di Tomdispatch, che è andato a fare due conti in tasca agli “imprenditori della paura”, come ha ribattezzato quelli che si sono arricchiti con l’ingente giro di soldi che il Pentagono distribuisce ai suoi contractor fuori da ogni controllo pubblico. Si tratta di una cosa come 10 miliardi di dollari l’anno solo per la sicurezza subappaltata a una serie di imprese spuntate come funghi dopo l’11 settembre, fondate da ex militari o ex politici più o meno ammanicati con il clan Bush-Cheney. Basti pensare che al National Counterterrorism Center, l’agenzia creata due anni fa per prevenire altri attacchi, più della metà dei dipendenti sono privati, così come a Langley, nel quartier generale della Cia che, da sola, stipendia circa 17mila 500 contractors esterni. La cifra è destinata ad aumentare se si prendono in considerazione le basi Cia d’oltreoceano – per esempio quelle di Islamabad o Baghdad – dove i contractor privati rappresentano ormai tre quarti del personale. Alcune istituzioni post-11 settembre, come il Department of Homeland Security ad esempio, sembrano avere l’unica funzione di distribuire fondi all’industria privata della sicurezza. Industria in espansione se è vero, come fa notare Paul Harris di The Guardian che «sette anni fa erano appena nove le compagnie sotto contratto con il governo federale per la sicurezza. Nel 2003 erano 3.512. Oggi sono 33.890».

Pensateci bene: quasi 38 mila compagnie a spartirsi una torta che, dal 2000, non ha fatto che lievitare a un ritmo di circa 60 miliardi di dollari l’anno. Non stupisce quindi se Washington pullula di lobbisti specializzati sui temi della sicurezza che pubblicano riviste e organizzano conferenze a getto continuo. La parte del leone la fanno ovviamente le compagnie più vicine all’amministrazione – come l’Ashcroft Group, compagnia fondata dall’ex ministro della Giustizia autore delle nuove leggi repressive entrate in vigore dopo il 2001 e reso impresentabile dopo lo scandalo di Abu Ghraib. Del resto Ashcroft non è il solo: sono almeno novanta i funzionari che hanno lasciato il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale per diventare consulenti o lobbisti, come ad esempio Tom Ridge, l’ex capo del Dipartimento. La sicurezza e l’anti-terrorismo fuori e dentro gli States sono insomma un’attività economica di notevoli dimensioni che, secondo Usa Today, ha un giro di affari che ormai si può paragonare a quello dell’industria discografica o cinematografica.

Grazie alla proiezione imperiale gli imprenditori della paura possono contare su di un mercato globale in crescita disposto a pagare a peso d’oro il loro expertise in spionaggio, nuove tecniche di tortura e nuovi ritrovati di deprivazione sensoriale per le prigioni più o meno segrete che il Pentagono sta ampliando ovunque. Un mercato globale che, come è stato calcolato dal centro studi Homeland Security Research, «nel caso di un attacco terroristico agli Stati Uniti, all’Europa o al Giappone potrebbe toccare un giro d’affari di 730 miliardi di dollari di qui al 2015». Un mercato globale che teme solo la pace e farà di tutto per prevenirla.