I no war si autoconvocano

Numerose adesioni all’assemblea romana per il ritiro da Kabul. Solidarietà ai senatori «obiettori» anche da Walden Bello. Ma una parte del movimento pacifista diserta: è una manifestazione a sostegno del no, noi siamo per la riduzione del danno. Russo Spena: sì al dialogo, a patto che non veniamo additati come traditori

Non avrà nulla a che vedere con le grandi adunate pacifiste di qualche anno fa, una parte del movimento la diserterà volutamente e anche un po’ polemicamente, per la sinistra radicale che voterà il rifinanziamento rappresenta un ennesimo motivo di tormento e anche una grana. Ma l’assemblea degli «autoconvocati» prevista per domani mattina a Roma, al centro congressi Frentani, rischia di avere un effetto deflagrante, più che sul voto alle missioni militari, sui rapporti all’interno del movimento no war e della sinistra radicale. L’elenco delle adesioni è tanto lungo quanto quello dei pacifisti che invece non ci saranno perché non condividono l’idea di continuare una «battaglia di bandiera» per il ritiro dall’Afghanistan e abbracciano l’idea che sia preferibile accontentarsi di aver portato a casa le truppe dall’Iraq e di aver sventato un aumento delle stesse a Kabul, risultati da cui ripartire per avviare un processo di exit strategy.
Con gli otto senatori «dissidenti», che dopo l’invito a tener duro arrivato da intellettuali come Noam Chomsky e Tariq Ali ieri hanno incassato anche quello del fondatore di Focus on the global south Walden Bello, saranno in tanti: esponenti di spicco del movimento pacifista come Gino Strada in videoconferenza da Kabul e padre Alex Zanotelli in collegamento da Napoli; uomini di spettacolo come Beppe Grillo e Sabina Guzzanti, Dario Fo e Franca Rame, il regista Mario Monicelli, gruppi musicali come Assalti frontali e Modena city ramblers. E anche qualche parlamentare accreditato di un sì al rifinanziamento, come Cesare Salvi e Josè Luiz del Rojo. Altri esponenti del «sì», notoriamente pacifisti, invece non ci saranno. Come Lidia Menapace o il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena, che ritiene «non accettabile la forzatura per cui ci sarebbero da una parte i pacifisti veri e dall’altra dei guerrafondai travestiti». Toni duri ma anche una disponibilità al confronto, «anche aspro», a patto che non avvenga con sul collo la spada di Damocle del voto sull’Afghanistan.
Gli schieramenti sono divisi esattamente a metà: da una parte chi pensa che il movimento pacifista debba continuare a dire no alla guerra senza se e senza ma senza perdersi dietro alchimie diplomatiche, dall’altra chi invece ritiene che qualche obiettivo potrà essere raggiunto solo se non si mette in crisi il governo. Sulla sostanza, vale a dire che le truppe da Kabul dovrebbero rientrare, tutti d’accordo. Ma stavolta non basta. E il tormento coinvolge soprattutto un partito come Rifondazione comunista che ha attraversato dall’interno tutti i movimenti degli ultimi anni, italiani e internazionali.
«Se il governo dovesse cadere sull’Afghanistan sarebbe una sconfitta epocale per il movimento pacifista», dice ancora Russo Spena. Parole che non convincono il leader dei Cobas Piero Bernocchi: «Quello del governo è un problema di Rifondazione e non nostro. E’ evidente che hanno paura non che cada il governo ma che si scopra che il Prc non è decisivo perché i voti possono arrivare da altre parti. Il movimento no war deve prendere le sue decisioni senza tener conto di un governo amico. Se oggi si parla di Afghanistan è anche grazie alle manifestazioni, pur piccole, che abbiamo fatto in questi mesi».
Altri due parlamentari del Prc che arrivano dai movimenti sono Francesco Martone e Francesco Caruso. Il primo non ci sarà per impegni già assunti ma comunque pensa che il vero lavoro politico da fare in questo momento sia all’interno delle istituzioni e non nelle piazze, in particolare per portare una proposta di exit strategy dall’Afghanistan al Consiglio di sicurezza dell’Onu, «così potremmo svolgere un ruolo insieme ad altri paesi Ue». Il secondo ha invece aderito ma, da ex disobbediente, aggiunge che «non basta votare no» e invita i «colleghi politici, invece di andarsene in barca a vela per il Mediterraneo, a partecipare alla delegazione internazionale che ad agosto andrà a Rafah, al confine tra l’Egitto e la striscia di Gaza». Poi la frecciata a chi, «ai tempi del G8 di Genova, e penso anche ad alcune minoranze di Rifondazione, snobbava i movimenti e ora ne è diventato paladino».
Anche Michele de Palma, segretario dei Giovani comunisti, ha trascorsi «disobbedienti» ma all’assemblea di domani non andrà. «Mi sarebbe piaciuto che provassimo a discutere insieme di come far ripartire il movimento. Invece l’assemblea si è trasformata in una manifestazione a sostegno dei senatori “dissidenti”, che vuole intervenire sulla fase politica immediata. E su questo non siamo d’accordo». Non ci sarà nemmeno Vittorio Agnoletto, impegnato all’anti-G8 di San Pietroburgo e alla preparazione di un’altra assemblea pacifista il 22 a Genova, approfittando delle manifestazioni per ricordare il G8 di cinque anni fa. Mancheranno anche pezzi di movimento come l’Arci e la Tavola della pace. Ci saranno invece Heidi Giuliani e Gigi Malabarba, che si passeranno il testimone al senato proprio nell’anniversario delle giornate genovesi, Luca Casarini e don Andrea Gallo. Che incontrerà un don Vitaliano della Sala convinto della bontà del suo astensionismo elettorale: «Ecco dimostrato perché non sono andato a votare. Era evidente che prima o poi contraddizioni come queste sarebbero venute a galla. C’è poco da meravigliarsi, bisognava discuterne prima. E poi, si parla tanto di democrazia partecipativa, ma la verità è che sulle decisioni importanti nessuno ci consulta».