I neo-cons vogliono un altro «attacco preventivo»

Attaccare l’Iran? «Gli Stati uniti dovrebbero
piuttosto cercare di uscire dal pantano in cui si sono
cacciati in Iraq», ha commentato ieri il presidente
della repubblica iraniana Mohammad Khatami. Era un
commento alle accuse rilanciate in questi giorni dal sottosegretario di
stato americano John Bolton – che l’Iran si sta costruendo la bomba
atomica. «Gli Stati uniti stano cercando pretesti per giustificare la
loro politica guerrafondaia», ha aggiunto Khatami: «Se avessero davvero
le prove di quello che dicono, farebbero il diavolo a quattro». Il fatto
è che a Washington qualcuno pensa che il modo per uscire dal «pantano»
iracheno sia proprio mirare l’Iran – che il presidente George W. Bush
aveva incluso nel cosiddetto «asse del male», con l’Iraq di Saddam
Hussein e con la Corea del Nord. L’Iran è un chiodo fisso per quella
corrente di estrema destra chiamata i «neo-conservatori», che comprende
esperti sparsi in centri studi come il American Enterprise Institute,
consiglieri sparsi tra il Pentagono e la Casa Bianca – tra i più in
vista sono il sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz, i consiglieri
del Pentagono Richard Perle o il sottosegretario Douglas Feith – e anche
columnist di grandi giornali. Certo, si potrebbe supporre che il
disastro della campagna in Iraq abbia spinto questa corrente a fare un
passo indietro: erano loro a dire che gli americani sarebbero stati
accolti in Iraq come liberatori, il dopoguerra sarebbe stato breve e
pacifico, l’Iraq senza Saddam sarebbe diventato un faro della democrazia
in Medio oriente (e una sicura base per le truppe americane nella
regione), la sicurezza di Israele sarebbe stata garantita e la pace in
Palestina finalmente possibile, e al Qaeda annullata per sempre. Tutto
il contrario. Ma non per questo l’influenza dei neo-cons a Washington
sembra diminuita.

L’Iran torna dunque nel mirino – con dichiarazioni
buttate là, qualche commento sui grandi giornali… In
ordine di tempo: Michael Ledeen, nella veste di
studioso dell’American Enterprise Istitute, ha scritto
che una politica di dialogo con Tehran sulle sarebbe «appeasement»,
acquietamento (un po’ come calare le braghe). L’Iran è «la pietra
miliare della rete terrorista con cui siamo in guerra», «è in corsa per
acquisire la bomba atomica» e «fa il possibile per uccidere americani in
Iraq con lo scopo di buttarci fuori dal Medio oriente e diffondere la
sua odiosa versione di regime islamico», ha sostenuto Ledeen in una
polemica con il Council for Foreign Relation (altro centro studi di
politica estera, pragmatico, che un mese fa ha pubblicato un documento
per una politica di dialogo con l’Iran: il manifesto, 24 agosto).

Ledeen non è un «esperto» qualsiasi. Senza risalire
alla sua storia equivoca (un ruolo mai ben chiarito
nell’affare Iran-contras), Ledeen è stato il
co-fondatore della «Coalizione per la democrazia in
Iran» insieme a Morris Amitay (della più potente lobby filo-israeliana a
Washington, il American Israel Public Affairs Committee). E’ questa
lobby che l’anno scorso è riuscita a far approvare dal Congresso una
«Iran Freedom Act», che stanzia circa 50 milioni di dollari per
sostenere una «rivoluzione democratica» dell’opposizione iraniana
(quella che piace ai neo-cons, per lo più gruppi monarchici esiliati
negli Usa), finanziare radio e tv, lanciare operazioni di propaganda.
Ledeen ora sostiene che questa «rivoluzione democratica» non nascerà
dall’interno dell’Iran stesso, «il movimento riformista non è riuscito a
soddisfare la richiesta popolare di libertà». E’ ora di indurre un
«cambio di regime».

La tesi che l’Iran è una «minaccia» è stata ripresa in
un paio di editoriali negli ultimi due mesi da Charles Krauthammer sul
Washington Post: «La lungamente attesa rivoluzione [in Itan] non è
avvenuta. Cosa che srende la questione di un attacco preventivo tanto
più urgente. …Se nulla sarà fatto, un regime fanatico e terrorista che
punta apertamente a distruggere il `grande satana’ avrà armi nucleari e
terroristi e i missili per mandarle a segno. La sola cosa che può
impedirlo è un attacco preventivo».

Il modello è quello già visto a proposito dell’Iraq.
La «legge per la libertà in Iran» ricalca quella alla
fine degli anni `90 per l’Iraq. Poi le accuse (di
costruire la bomba nucleare, di fomentare il
terrorismo), costruite con «rivelazioni» e analisi di
esperti e amplificate da editoriali. Poi le pressioni
sugli alleati occidentali – in questo caso presso
l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Con la variante, in
questo caso, che il «colpo preventivo» potrebbe essere affidato a
Israele, il cui primo ministro Ariel Sharon ha definito Tehran la
«maggiore minaccia» all’esistenza dello stato ebraico (che è nel raggio
d’azione del missile Shahab-3, sperimentato il mese scorso dall’Iran).
Lo scenario è allarmante. A meno che voci più realistiche prevalgano –
sia a Washington, sia a Gerusalemme.