“I movimenti e la rinascita della politica” (intervista a G.Berlinguer)

In queste settimane Giovanni Berlinguer è molto richiesto dai giornali e anch’io lo vado a trovare nella sua casa romana, che si avvita, su per scale, lungo pareti zeppe di libri. Il problematico congresso dei Ds, reso ancora più animato dall’inatteso intervento di Berlinguer, è già cominciato e pongo subito le due questioni che a me paiono decisive.

Cominciamo dal partito e dal che fare.

Partirei dall’esigenza più immediata, la necessità di un mutamento profondo dei Ds, oggi, dopo la gravissima sconfitta. Di fatto i Ds sono senza guida da diversi anni, hanno sostituito agli organismi dirigenti eletti il sistema dello staff del segretario: siamo a un consiglio nazionale di 450 persone, che rende impossibile ogni democrazia interna; hanno trasferito gran parte del lavoro nelle istituzioni, il che ha positivamente prodotto capacità di governo, ma anche l’interruzione di quel vitale rapporto con gli elettori, i cittadini, i lavoratori, gli iscritti. C’è poi una questione più grave, di fondo, che nel 1991 segnalai con un libretto, I duplicanti, l’emersione di un ceto politico diffuso, autoreplicante, che parlava solo a se stesso.

Questo libretto pubblicato da Laterza ben dieci anni fa è un pamphlet di straordinaria attualità sui “professionisti della politica”, ma ciò detto, tu pensi a una restaurazione del vecchio buon Pci?

Ricostituire il Pci non solo non è possibile, ma non è neppure desiderabile. Quella del Pci è una grande storia, che non si può rimuovere (l’articolo di Chiarante sulla questione comunista è molto giusto), ma è anche una storia di intolleranza, dogmatismo, di una disciplina spesso liberamente accettata, ma che sacrificava le scelte individuali. Tutto questo oggi è aggravato non solo dall’isterilimento delle idee, ma anche, per dirla brutalmente, dallo squilibrio numerico tra persone e posti da occupare, il che espone al rischio, fortissimo, che la lotta politica degeneri in lotta per difendere o conquistare posti e così si blocca, come si è bloccato, l’afflusso di giovani che vorrebbero entrare nel partito per fare politica e non per conquistare posizioni di potere. Il meccanismo dei “duplicanti” è necrotico.

Come vanno le nuove iscrizioni?

Vanno abbastanza bene, ma non voglio insistere su questo punto. C’è una caduta di afflusso di giovani, di nuove correnti di pensiero, di persone dei movimenti.

C’è una latitanza degli intellettuali.

Sì, non è buono, ma in queste settimane c’è stata una ripresa, anche se qualcuno l’ha vista male. C’è chi ha scritto “Ma quante divisioni ha Camilleri?” E Vattimo ha affermato che un intellettuale non può dirigere un partito, come se Togliatti e gli altri dirigenti non fossero intellettuali. La questione urgente, di emergenza, è quella dei Ds e il congresso può essere l’occasione perché gli iscritti vecchi e nuovi si riapproprino del partito.

Ma tu pensi che le sezioni si possano rivitalizzare?

Il congresso offre un’occasione. Non c’è una maggioranza precostituita e soprattutto, a differenza del passato, non c’è il grande centro che tagliava le ali estreme e, con le tesi, si presentava vincente in partenza. Oggi c’è uno schieramento di centro destra e uno schieramento di centro sinistra: bisogna scegliere, ed è nel confronto che si può avere una rivitalizzazione del partito.

Passiamo al che fare. Secondo te è possibile definire, quasi in una tavola sinottica, le proposte del centro destra e quelle del centro sinistra? Temo che su questo terreno ci possa essere un po’ di confusione o una convergenza al centro. Pensiamo alla politica economica…

Non credo. Innanzi tutto c’è una differenza forte, direi di principio, sul neoliberismo: il centro sinistra è totalmente contro mentre Fassino, sul Sole 24 Ore, afferma che “serve una programmazione più leggera”, quando di programmazione non ce n’è proprio nessuna. Aggiungo che il centro destra sostiene che abbiamo perso le elezioni perché siamo stati poco liberisti.

Sulle privatizzazioni che cosa pensi?

Certo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione non si è rivelato il sistema migliore per lo sviluppo economico, anche se in Italia senza l’Iri, le partecipazioni statali, etc, non avremmo avuto il famoso miracolo economico. Quel sistema è degenerato fino a Tangentopoli, quindi riportare al privato alcune attività economiche è apparso legittimo e anche utile. Però a cosa hanno portato le nostre privatizzazioni? Non certo all’azionariato diffuso, alle public companies, ma al ritorno al potere delle vecchie grandi famiglie, vedi Fiat e Pirelli, o alla sostituzione del monopolio pubblico con quello privato. Quindi l’indirizzo va corretto per evitare che le ulteriori privatizzazioni seguano la stessa via. Né si può dimenticare a cosa hanno portato la privatizzazione dell’elettricità in California e dei trasporti in Inghilterra: black out e incidenti ferroviari. Questo non comporta un ritorno alla proprietà pubblica, ma a regole e controlli pubblici, sì. E il discorso diventa molto più complicato e diverso quando si passa dalle attività produttive ai servizi essenziali come sanità e scuola.

Quali sono queste diversità?

Innanzi tutto, una cosa è formare o curare le persone, altra cosa produrre auto. Nello specifico, pur riconoscendo la libertà di scuole e ospedali privati, ritengo ci debbano essere regole di universalità sia per il privato che per il pubblico: non ci può essere il disimpegno dello stato, come ha ben sostenuto Umberto Eco su Repubblica di venerdì scorso. Faccio l’esempio del bonus, che dà alle famiglie la possibilità di mandare i figli nella scuola che preferiscono: senza l’intervento dello stato, può trasformarsi in malus se molte famiglie potranno mandare i figli in scuole cattive che però assicurano promozioni facili. Si apre così la strada a un degrado della scuola e soprattutto dei giovani.
Io già negli anni ’50 ero contrario all’Associazione per “la difesa” della scuola pubblica e sono contro “la difesa” del sistema sanitario pubblico in astratto: si tratta di sistemi che hanno bisogno di continue innovazioni e adattamenti, pertanto anche il privato può agire, ma in questi settori, pubblici o privati che siano, lo stato deve garantire i principi di universalità e personalizzazione: il libero mercato della salute e della formazione sarebbe un disastro. Insisto sulla personalizzazione: un malato in ospedale non è e non deve essere un numero.

Sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sulla flessibilità?

A mio parere l’articolo 18 va esteso a tutti i lavori e rifiuto la flessibilità, che è solo la mascheratura del diritto di licenziamento, piuttosto si dovrebbe parlare di versatilità, cioè di formazione permanente dei lavoratori in modo da evitare che le innovazioni tecnologiche li rendano persone obsolete, roba usa e getta. Ricordiamoci che andiamo verso un autunno di offensiva padronale e governativa, che i metalmeccanici debbono vincere il loro contratto, che i lavoratori in varia forma dipendenti sono la base della società e della sinistra.

Passiamo alla politica estera, alla Nato e alla guerra del Kosovo che per molte persone di sinistra è stata un’offesa inaccettabile.

La Nato c’è, ma la situazione internazionale non è più quella della guerra fredda; temo la sua espansione verso i paesi confinanti con la Russia, ma temo ancor più la corsa agli armamenti che può essere lanciata dallo scudo spaziale Usa, che piace tanto all’attuale governo italiano.

Ma la Nato è ancora il braccio armato degli Usa.

Sì, e anche per questo vedo con simpatia la possibilità di un’autonomia militare dell’Unione europea.

Dimmi della partecipazione italiana alla guerra del Kosovo.

Confesso che sono stato molto incerto e tormentato. Da una parte c’era la pulizia etnica dall’altra l’intromissione nelle vicende di uno stato autonomo. Ma debbo aggiungere che poi tutto è andato al peggio: i bombardamenti distruttivi in Jugoslavia e l’esplosione di un conflitto balcanico che ancora continua. Con la minaccia della corsa agli armamenti bisogna aver molta più attenzione alla pace: in Palestina c’è una guerra spaventosa e non facciamo niente per i palestinesi, che hanno il sacrosanto diritto di avere uno stato. Questi sono problemi urgenti e drammatici, tuttavia oggi, quando si parla tanto di globalizzazione, bisogna avere attenzione al quadro mondiale. Subito dopo la seconda guerra mondiale sono nate una serie di istituzioni internazionali, che avrebbero dovuto governare la pace: gli accordi di Bretton Woods, l’Onu, l’Unesco, l’Oms, la Fao e tante altre. Poi c’è stata la guerra fredda e queste istituzioni si sono espanse in sedi e personale ma si sono erose in potere. Oggi contano soltanto il G8 (cioè il G7), la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, il Wto: il potere si è concentrato nei sette stati più ricchi e negli organismi che governano la moneta e il commercio. Dicono di combattere la fame, ma poi decidono che gli argentini non possono esportare la loro carne o che il cacao può anche essere una miscela, a tutto danno dei paesi produttori. Il protezionismo per le agricolture europee e Usa è scandaloso. Praticamente sono stati sterilizzati o uccisi gli embrioni di quel governo mondiale a cui pensava il mio filosofo preferito.

Pensi alla “Pace perpetua” di Kant?

Lo ammetto.

Quindi il movimento dei popoli di Seattle e poi quello di Genova hanno più di una ragione?

Certamente, e quel che conta di più è che questi movimenti hanno una valenza assolutamente politica: le loro rivendicazioni specifiche compongono un generale politico.

E’ quel che ha sostenuto Alain Touraine. Ma Genova?

Un evento importante, che segna una ripresa del movimento. Un uscire dall’apatia, come recitava il titolo di un libro dei primi anni ’60. Ciò detto, vorrei precisare con forza due punti, sulla violenza e sulla globalizzazione. Innanzi tutto, i movimenti che vogliono scardinare il sistema della violenza capitalistica non possono essere violenti, sennò fanno pensare agli antiabortisti Usa che per difendere la vita ammazzano i medici che praticano l’aborto.
Quanto alla globalizzazione, ci vuole chiarezza: la globalizzazione c’è, è antica, e non ci possono essere movimenti contro la globalizzazione in quanto tale, come non ci possono essere movimenti contro la legge di gravità.

Anche Mandela ha detto pressappoco le stesse cose. E poi, l’impero romano non è un esempio di globalizzazione?

Ci sono state molte globalizzazioni nella storia. Del resto, nel 1992, per i 500 anni della scoperta dell’America, sull’American Journal of Public Health scrissi un articolo sulla globalizzazione delle malattie, l’unificazione microbica del mondo. Poi si cominciò a lavorare alla globalizzazione della salute, pensa all’Oms.

Ma la globalizzazione attuale mi sembra proprio quella delle malattie, di tutti i tipi.

Sì, è una globalizzazione che produce ingiustizie e non favorisce neppure la lotta alle malattie: anche le grandi scoperte mediche provocano disuguaglianza e ingiustizia. Una volta l’Aids era incurabile, ora con il sistema dei brevetti le scoperte scientifiche consentono ai ricchi di curarsi e condannano a morire tutti gli altri. Assai diversa era la situazione subito dopo la seconda guerra mondiale quando le scoperte scientifiche, la penicillina, gli antibiotici furono largamente diffusi in tutto il mondo, senza questione di brevetti e di prezzi.

Sarò vetero, ma allora c’era ancora il clima della guerra anti-fascista per la liberazione dei popoli e delle persone, per l’eguaglianza.

Però debbo dire che oggi, con una ripresa del movimento, ci sono state le vittorie del Sud Africa e del Brasile contro le multinazionali per l’abbattimento del prezzo dei farmaci.

Torniamo al movimento dei popoli di Seattle…

E’ un movimento di grande portata e, come ho detto, fortemente politico. Il più grande errore che potrebbero fare le forze politiche di sinsistra è quello del paternalismo, fare i maestrini che danno la lezione. Nel ’68 un vecchio dirigente del Pci, Luigi Longo, invitò i leader di allora, non diede alcuna lezione, ma scelse di ascoltare. Oggi i Ds dovrebbero imparare ad ascoltare e proporre a se stessi obiettivi di trasformazione sui quali il movimento può convergere. Molte cose cui aspirano questi giovani sono quelle per cui noi combattiamo, o dovremmo combattere. Siamo ancora agli inizi, ma io credo si debba aprire un fronte di lotta internazionale, per la riforma e l’attivazione democratica di quegli organismi nati nel secondo dopoguerra. Questo dovrebbe essere compito primario dell’Internazionale socialista, alla quale noi aderiamo (e ne sono felice), ma l’Internazionale socialista non ha ancora una linea chiara.

Mi preoccupa un po’ quel preambolo comune che dovrebbe precedere le mozioni congressuali. Ci vedo il pericolo di un pasticcio.

Preambolo è una parola orribile e irripetibile. Per il resto ancora non so bene, forse una dichiarazione su ciò che ci unisce potrebbe essere utile, ma per piacere non parliamo di preambolo.

Su qualche giornale, credo l’Unità, ho letto che il congresso potrebbe concludersi con Fassino segretario e te presidente.

Non ci penso affatto. In primo luogo sarebbe una prevaricazione sul congresso che deva ancora svolgersi. In secondo luogo un tale esito mi pare politicamente impossibile e dannoso al partito.

Un’ultima domanda su Cofferati. Le sue dichiarazioni contro l’attuale politica del governo e il suo impegno nel congresso Ds, anche a tuo sostegno, hanno scatenato una buriana.

E’ vero. Tutti se la prendono con Cofferati. Pensa che la Lega ha detto: Cofferati manda Berlinguer al macello per prendere il comando dei Ds. Non solo Confindustria e governo, ma anche esponenti dei Ds e pure Fausto Bertinotti: “Cofferati pensa alla Quercia e non fa il suo mestiere”, era il titolo del Corsera di ieri a un’intervista al segretario di Rifondazione. Io giudico la polemica interna alla sinistra, avviatasi già due anni fa, improvvida e autolesionista. E’ ovvio che il sindacato deve continuamente rinnovarsi e che il rapporto tra generazioni è un problema, ma il dato di fatto è che la Cgil ha una giusta posizione e merita il maggiore sostegno da parte di tutti. Certo, c’è il problema dell’unità sindacale, ma non lo si risolve impedendo che un dirigente sindacale si impegni nel dibattito del partito al quale appartiene. Accusarlo di strumentalizzare la Cgil per fini politici è ingeneroso e assurdo: un dirigente sindacale non è un minorato politico. Vale ricordare che Di Vittorio partecipava (e come!) al dibattito interno al Pci, anche in polemica, 1956 per l’Ungheria, con la linea del suo partito e non per questo veniva condannato al silenzio. E si trattava di quel Pci oggi tanto criticato.