I morti ignoti, alla politica

Sergio Bonetto è tra gli avvocati che da più tempo si occupano della difesa dei lavoratori colpiti da malattie professionali e degli eredi di coloro a cui il lavoro è costato la vita. Il caso più noto è quello della Eternit di Casale Monferrato, su cui il sostituto procuratore Raffaele Guariniello sta per concludere l’inchiesta.
In Italia si parla di oltre 1300 morti sul lavoro l’anno, quattro al giorno, ma da questi terribili conteggi sono esclusi i decessi provocati dalle malattie professionali. Sei in grado di ipotizzarne il numero?
La risposta non è facile. L’Inail non indica i casi di morte in cui la malattia professionale è intervenuta come causa diretta e unica, o come concausa. Le denunce di malattia professionale sono 26.000 l’anno, in maggioranza non mortali. Ma vi sono anche patologie tumorali, respiratorie, silicosi, asbestosi che possono essere causa di morte o di riduzione della durata della vita. I soli mesoteliomi (indotti dall’amianto e sempre fatali) risultano, sulla base dell’apposito registro nazionale (peraltro incompleto), oltre mille l’anno. Circa la metà sono riconosciuti dall’Inail. Sarebbe indispensabile che l’Inail fornisse il numero delle rendite ai superstiti, corrisposte al coniuge, in qualche caso ai figli, qualora il decesso sia stato riconosciuto come collegato all’attività lavorativa. Anche questo dato sottostimerebbe il fenomeno, risultando esclusi tutti i casi in cui non vi è un coniuge superstite, tuttavia sarebbe una prima approssimazione. Oggi l’Inail fornisce solo l’importo di spesa per tali rendite, dato inutilizzabile. Non è azzardato ritenere che i morti da lavoro siano per lo meno il doppio: non quattro ma otto al giorno. Le malattie professionali, praticamente tutte figlie dell’industria, sono quasi sempre prevedibili e tendono a reiterarsi per periodi anche lunghi. Nelle malattie da amianto, la lunga latenza di determinate patologie – conosciute dagli anni Sessanta – ha consentito all’industria di «tirare avanti» con la produzione sino agli anni Novanta, producendo migliaia di casi mortali.
Non è bastato chiudere la Eternit per far cessare le morti da mesotelioma. Si ha un’idea dell’entità del fenomeno?
Ancora oggi, a oltre 20 anni dalla chiusura degli stabilimenti, a Casale Monferrato vi sono 35-40 nuovi casi di mesotelioma ogni anno. E’ un «danno collaterale» dell’industria che secondo gli esperti continuerà per i prossimi 20 anni. In Francia la magistratura ha condannato lo Stato per la sua negligenza nell’affrontare questo problema, come ha fatto in riferimento all’uso del sangue infetto. Da noi, invece, questi processi non si fanno.
E i sindacati non hanno una parte di responsabilità?
Non ricordo di aver visto, negli ultimi 15 anni, contrattazione sugli specifici ambienti di lavoro o piattaforme rivendicative che, utilizzando i dati raccolti dai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, pretendano cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Sono state prodotte montagne di accordi sui premi di produzione, straordinari e cassa integrazione, ma della salute dei lavoratori non si parla mai. Ma i Rls funzionano? E’ possibile che non rilevino mai preventivamente i problemi e la pericolosità della produzione? O vi è un difetto nella comunicazione tra Rls e sindacati, per cui le esigenze di sicurezza non divengono mai piattaforma rivendicativa? O vi è uno scambio tacito tra imprese e sindacati e la sicurezza viene delegata all’impresa per evitare ripercussioni sul tema concretissimo del salario? Nel nostro sistema legale esiste, per l’imprenditore, l’obbligo di «rendere edotto» ogni lavoratore dei rischi che corre. Bisognerebbe rendere effettivo l’obbligo, oggi largamente evaso. E consegnare al singolo lavoratore uno scritto, aggiornato ogni sei mesi, con l’elenco dei rischi a cui è esposto. E organizzare una formazione obbligatoria sulla sicurezza, almeno di otto ore l’anno, per ogni lavoratore, con la partecipazione dei tecnici previsti all’art. 9 dello Statuto. Se a ogni esposto a rischio cancerogeni fosse stata fornita adeguata informazione scritta, sarebbero morti migliaia di lavoratori in meno. E invece, per tornare all’amianto, non mi risulta che un solo imprenditore, pubblico o privato, abbia mai informato sul rischio-cancro e sull’effetto sinergico tra amianto e fumo di sigaretta nel carcinoma polmonare. I due agenti congiunti moltiplicano per 150 le probabilità di contrarre la patologia. Quanti morti hanno sulla coscienza questi signori? A sentirli in sede processuale, quasi nessuno. In giudizio, quando si celebra, combattono come leoni per dimostrare che il lavoratore, con il «fumo voluttuario», si è creato da solo il problema.
Le responsabilità delle imprese, i ritardi sindacali: e i lavoratori sono senza colpe?
Escluderei che un lavoratore cosciente dei rischi che corre non faccia nulla, a livello rivendicativo e personale per annullare o ridurre tali rischi. Ma tale coscienza manca. I lavoratori non sono messi in condizione di porsi il problema.
E poi c’è la funzione degli organismi pubblici di controllo…
E’ assolutamente carente, forse dolosamente. Il responsabile dei controlli che si è recato alla ThyssenKrupp pochi mesi prima della mattanza non era mai entrato in uno stabilimento di laminazione. Le indagini condotte successivamente hanno evidenziato una situazione di grave e generalizzato pericolo, conseguente all’assenza di manutenzione preventiva su grandi impianti fatti funzionare, nell’ultimo anno, da sempre meno lavoratori, spesso non esperti, con orari protratti oltre ogni ragionevole limite. Come se ne sono resi conto i lavoratori, dovevano rendersene conto i responsabili dei controlli.
Inoltre gli ispettori sono pochi.
Se è vero che per controllare tutte le imprese con l’organico attuale ci vorrebbero 30 anni, è anche vero che raramente i controlli portano a contestazioni di violazioni importanti e quindi costose per le imprese. Ne abbiamo un riscontro in sede giudiziaria. Il nostro sistema penale punisce l’imprenditore per omissione o rimozione delle misure di sicurezza, indipendentemente dal fatto che si verifichi l’infortunio o la malattia professionale. Anche in sede giudiziaria torinese, la più sensibile, la grande maggioranza dei procedimenti penali riguarda infortuni e malattie già verificatesi e raramente vi sono procedimenti che anticipino gli eventi mortali o lesivi. Ciò significa che le notizie sulla pericolosità degli ambienti di lavoro tendono a non affluire alla Procura. Vi è una responsabilità, almeno oggettiva, dei soggetti incaricati dei controlli e, in misura minore, dei sindacati. Non sono una leggenda metropolitana i preavvisi alle aziende sulle ispezioni imminenti, o le ispezioni «miopi» sulle inadempienze e i rischi gravi e invece occhiute sull’altezza da terra dei lavandini.
Per non parlare degli ispettori che sono consulenti della stessa azienda da ispezionare.
Agli incaricati delle ispezioni (e ai loro dirigenti) dev’essere vietata qualsiasi attività di consulenza per le imprese. Deve essere introdotto l’obbligo per gli ispettori, con relativa sanzione, di ascoltare sempre e riservatamente i Rls e i lavoratori gli operai degli impianti. I responsabili degli uffici devono controfirmare i verbali ispettivi. Deve essere garantita la competenza professionale degli ispettori. Solo assumendo misure di questo tipo ha un senso parlare di ampliamento degli organici delle strutture ispettive.
Torino è un caso virtuoso. Ma quante sono le Procure impegnate sulla sicurezza?
A vedere le statistiche, l’area torinese sembrerebbe la più pericolosa per chi lavora. Solo qui i processi così spesso affrontano il problema dei cancerogeni; Torino sarebbe al primo posto per le malattie da sforzo ripetuto; solo qui c’è in Procura un gruppo di magistrati specializzati; solo qui si è sentita la necessità di istituire, per i medici che diagnosticano certi tipi di patologie, un obbligo di segnalazione. Perché a Monfalcone, malgrado le centinaia di casi di mesotelioma e altre patologie dell’amianto tra i cantieristi, la Procura non ha mai concluso un’inchiesta? Perché la Procura di Casale ha archiviato per anni le denunce dichiarando l’impossibilità di individuare i responsabili? Perché a Bagnoli, sede di uno stabilimento Eternit, la Procura non si è mai neppure accorta delle malattie professionali e delle morti da amianto? I processi non si fanno, le vittime non vengono risarcite, le imprese risparmiano miliardi e si diffonde quel senso di impunità che, particolarmente tra i ricchi, è oggi in Italia una sorta di status symbol.