Mancano un anno e sette mesi al primo martedì di novembre 2008 quando una buona metà dei cittadini degli Stati uniti si recherà alle urne per eleggere il successore di George Bush e l’attenzione prestata dai mass media italiani ad un evento così lontano nel tempo è a dir poco singolare. Non era mai accaduto: prima delle primarie di primavera e delle convenzioni dell’estate nell’anno elettorale era ben raro che un quotidiano o un telegiornale menzionassero i nomi dei potenziali candidati alla Casa Bianca: oggi fiumi di inchiostro vengono versati e corposi servizi televisivi vengono dedicati alla presenza di due di questi candidati alla commemorazione di un importante evento nella lotta per i diritti civili in terra d’America.
Senza tornare sul tema della crescente egemonia culturale Usa in Europa e nel mondo, la ragione più immediata sta nel fatto che la campagna elettorale questa volta si è allungata a dismisura con le prime discese in campo tra l’ottobre e il novembre 2006. Ma c’è ben altro: la speranza nella fine di un incubo protrattosi per più di sei anni, con due rovinose guerre preventive e una breve in Libano che rischiano di sfociare in un grande conflitto mediorientale coinvolgendo l’intera Europa. E’ la speranza nella «altramerica» che riemergerà dalle urne nel novembre del 2008, la cacciata dei «bushevichi», la radiosa aurora democratica che squarcerà le tenebre sul pianeta.
Wishful thinking? Un pensare augurale e illusorio? Sembra di sì a giudicare dai pronunciamenti degli esponenti cosiddetti progressisti e più o meno filoamericani nel nostro paese che trovano immediato riscontro nei mass-media nazionali. Se è giustificato attendersi tra due anni una correzione di rotta, una sua inversione a 180 gradi appare altamente improbabile se non impossibile nella paventata ipotesi di un attacco israeliano e statunitense all’Iran. Dei candidati che d’altro canto potrebbero imprimere un nuovo corso alla politica estera e militare degli Stati uniti si parla poco o non si parla affatto nel nostro paese perché troppo «radicali» o comunque predestinati all’insuccesso (a meno che non si assista, come a Saigon, agli elicotteri che si levano in volo per l’ultima volta dal tetto dell’ambasciata Usa a Bagdad). Non si parla di John Edwards, già candidato alla vicepresidenza con Kerry, non si parla di Bill Richardson che si batte da anni per la causa degli immigrati ispanici, non si parla di Denis Kucinich che votò alla Camera contro il conferimento dei poteri di guerra a Bush: tutti e tre sono per il ritiro immediato dall’Iraq.
Si accentra invece l’attenzione su un’America buona, equa, innovativa, quella rappresentata da una donna, Hillary Clinton, e da un afro-americano, Barack Obama, perché una presenza femminile o nera in alternativa nell’ufficio ovale della Casa Bianca rappresenterebbero di per se stesse l’avvento della saggezza, della giustizia e della pace nella conduzione della repubblica stellata. Li abbiamo visti separati e poi brevemente insieme alla commemorazione della «Bloody Sunday», della marcia sul ponte Edmund Pettus a Selma in Alabama che dopo l’intervento bestiale della polizia il 7 marzo 1965 indusse il presidente Lyndon Johnson a promulgare il «Voting Rights Act» che abrogò i più espliciti e razzisti impedimenti al voto degli afroamericani. La signora Clinton, per la prima volta accanto al marito in questa campagna elettorale, si è impegnata a completare quella marcia, senza peraltro identificarne le tappe più essenziali, la reintroduzione delle quote nelle assunzioni, l’accesso universale alle scuole con i finanziamenti federali, il perseguimento penale dei brogli perpetrati nelle ultime tre elezioni per ostacolare l’accesso alle urne degli afroamericani e via dicendo. «Posso anche essere il personaggio più famoso – ha detto – ma voi ancora non mi conoscete». E’ tornata così a proiettare l’immagine di una donna abbastanza forte per guidare gli americani in guerra e abbastanza tenera per comprenderne bisogni e sofferenze, magnanima nel perdonare le infedeltà – apparentemente tuttora in corso – del marito, ma indipendente e saggia nell’utilizzare la sua popolarità tra i neri del Sud.
Obama, detto dai denigratori «il nero dal cuore bianco», è stato meno eloquente del solito nel proclamare un «noi ci troviamo assisi sulle spalle di quei giganti che marciarono a Selma», ha cercato di rivendicare la sua legittimità di candidato afro-americano – lui non discende da schiavi ma è figlio di un nero keniota e di una bianca del Kansas – ricordando che il nonno era stato impiegato tutta la vita come cuoco in una famiglia di bianchi nella colonia britannica e che per tutta la vita era stato chiamato dai padroni di casa «houseboy»: il termine «ragazzo di casa» denota un pregiudizio razzista ma non può essere paragonato alle catene degli schiavi di proprietà degli antenati della madre.
Il razzismo rimane comunque radicato nel subconscio dei bianchi d’America e rende improbabile l’ascesa alla Casa Bianca di Barack Obama: è riaffiorato ad esempio nell’equivoco elogio estesogli da un altro candidato liberal, Joe Biden: «E’ il primo candidato nero articolato e pulito», ha dichiarato a febbraio provocando sferzanti commenti da parte di esponenti politici neri come i reverendi Al Sharpton e Jesse Jackson, i quali hanno informato Biden della loro dimestichezza con bagni e docce e delle etichette dei deodoranti usati. A ricordare che l’integrazione e l’eguaglianza sono traguardi ancora lontani nella società statunitense è intervenuto lo stesso giorno delle commemorazioni di Selma un altro evento grave e significativo: Bruce S. Gordon è stato sfiduciato e costretto a dimettersi da presidente della National Association for the advancement of Colored People. Aveva cercato di trasformare in organizzazione assistenziale l’associazione più gloriosa nella lotta per l’integrazione razziale dei neri americani. Il suo direttore operativo, l’intellettuale Julian Bond, ha così motivato l’allontanamento del Gordon: «Voleva farne della Naacp un ente di servizi sociali: un ente di questo tipo fa fronte agli effetti della discriminazione razziale, noi dobbiamo batterci contro le cause. E’ diventato oggi di moda dire che abbiamo superato la fase della lotta per i diritti civili. Noi non ci crediamo affatto». Malgrado le loro belle parole sembrano crederci sia Barack che Hillary.
E’ sulla guerra preventiva e senza fine al terrorismo, sul «destino manifesto» e sull’eccezionalismo della missione imperiale degli Stati uniti che le prese di posizione dei due personaggi appaiono quanto mai ambigue e ben poco discontinue da quelle del presente inquilino di Pennsylvania Avenue. La senatrice Clinton ha dichiarato a più riprese di non dover chiedere scusa per aver votato a favore dei pieni poteri conferiti al presidente in carica. Obama non ha votato a favore perché non era stato ancora eletto al senato, ma anche prima si era dichiarato genericamente contrario alla guerra. Poi da senatore e da candidato alla presidenza ha presentato all’esame della Camera alta un progetto di legge dal titolo «The Iraq de-escalation bill of 2007» che prevede il ritiro delle brigate da combattimento statunitensi dell’Iraq entro l’8 marzo 2008. Tale ritiro – viene spiegato nel testo del provvedimento – può essere sospeso qualora il presidente dichiari al Congresso che la presenza militare Usa sia in procinto di ottenere i risultati desiderati. E Bush può comunque ignorare risoluzioni del genere per altri due anni e uscire di scena con un finale di fuoco e fiamme wagneriano, da Cavalcata della valkirie.