Sarà stato il 1970. Una delegazione dell’allora gruppo politico del «manifesto» riferiva su un recente viaggio in Cina, e qualcuno chiese: «Esistono le carceri in Cina»? Non ricordo la risposta, ma la domanda, per quanto ingenua, poneva una questione fondamentale: un paese che si pone come guida e modello deve essere giudicato sulla civiltà del suo sistema penale. Ora, gli Stati uniti non sono il peggio che esiste al mondo da questo punto di vista: se la battono con l’Arabia saudita e, appunto con la Cina. Ma quello che rende particolarmente preoccupante la passione per il boia di tanta e importante parte dell’America è appunto la pretesa degli Stati uniti, e dei loro subalterni, di porsi come guida e modello non solo dell’Occidente ma del mondo intero: non solo perché pone in questione la moralità di un paese-guida che è costretto a dire (mentendo) «noi non torturiamo»; ma perché dà corpo a pulsioni presenti e negate nel corpo stesso della nostra società. Paradossalmente, esiste una relazione fra la pena di morte e il modo con cui i gruppi dirigenti degli Stati uniti, da Bush a Schwarzenegger, interpretano il ruolo di leadership del loro paese. I nostri media continuano a stupirsi del fatto che le sentenze di morte sono confermate nonostante la mobilitazione internazionale. A me pare che le sentenze si confermano anche per non dare l’impressione di «cedere» alle pressioni di stranieri molli, pacifisti e sentimentali. Da Sacco e Vanzetti a Rocco Bernabei a Tookie Williams ho sempre la sensazione molto concreta che l’esecuzione sia un’arrogante risposta al resto del mondo: di che s’impicciano questi?
Ha scritto il politologo conservatore Robert Kagan in un libro di successo che «gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere». Per una classe dirigente «virile» (e un po’ marziana), ogni dialogo è un cedimento: il muscoloso governatore della California ha colto questa occasione per avvicinare la sua persona reale all’immagine cinematografica per la quale hanno votato i suoi elettori. E’ quella cultura del «non si torna indietro» di cui esistono parecchie varianti anche nostrane, meno direttamente omicide ma non meno proterve (ne sa qualcosa Adriano Sofri).
Nel retroterra della pena di morte c’è una diversa interpretazione del significato della pena. La nostra Costituzione afferma che la funzione della pena è redentiva e rieducativa più che afflittiva; un’affermazione smentita dalla realtà concreta delle nostre carceri e dal mantenimento dell’ergastolo, ma che almeno tiene fermo un principio di umanità, di speranza e di democrazia: l’idea che gli esseri umani sono soggetti in trasformazione, flusso, cambiamento perenne, non inchiodati per sempre a un unico gesto. La pena di morte è invece il massimo dell’ideologia della pena come punizione: una volta criminale, sempre criminale; grazia e dannazione, colpa e virtù sono predestinate e immutabili, una volta per sempre. L’unica possibilità è sradicare il male.
Teoricamente, anche negli Stati uniti le trasformazioni del condannato possono influire sulla decisione di commutare la pena (di questo, non di grazia, si trattava nel caso di Tookie Williams). Fin troppo spesso, però, non se ne parla nemmeno. Penso al caso celebre di Karla Faye Tucker, assassina confessa, pentita e trasformata, e ammazzata lo stesso dallo stato del Texas – prima donna «giustiziata» dal tempo della Guerra Civile. Il caso di Tookie Williams era addirittura emblematico: non solo si dichiarava innocente (e c’erano anche nuove testimonianze a favore), ma aveva lottato con tutti i mezzi a sua disposizione per sradicare quella stessa violenza della quale era stato protagonista in passato. Tookie Williams aveva capito la profonda differenza fra la lotta di liberazione nera e le gang del ghetto, e cercava di spiegarla ai suoi fratelli di strada che rischiavano di prendere la stessa via. Proprio questo lo ha condannato: Arnold Schwarzenegger ha motivato il rifiuto della commutazione della pena col fatto che nel suo libro Williams fa riferimento a Angela Davis e a Malcolm X (a cui peraltro perfino le poste federali hanno dedicato un francobollo celebrativo…). Non è solo ignoranza profonda della storia e della società americana; è che per questo governatore la rivoluzione nera che è criminale in sé. La morte di Tookie Williams, allora, è un’estensione di quel «racial profiling» per cui ogni nero è sospetto in quanto tale; è un altro capitolo nella storia delle Black Panthers ammazzate negli anni `60 e `70 per la loro militanza rivoluzionaria criminalizzata. Come tanti benpensanti nostrani, Schwarzenegger scambia il pentimento con l’abiura: non basta indicare un altro modo per esprimere e far pesare la rabbia e l’emarginazione del ghetto; bisogna sottomettersi e basta. Tookie Williams non lo ha fatto, e l’hanno ammazzato.