La data non è ancora stata definita, ma i lavoratori della Telecom – 80 mila in tutta Italia – sono decisi: a metà maggio si sciopera per dire no allo «spezzatino» del gruppo, per tutelare l’«unitarietà» e l’«italianità» dell’azienda di telecomunicazioni, rigettando le ipotesi di «colonizzazione» straniera. L’annuncio è venuto ieri dall’Assemblea nazionale di quadri e delegati Slc, Fistel e Uilcom riunita a Roma. Lo stop seguirebbe quello già definito per il 4 maggio, un’ora di sciopero e assemblee in tutto il settore contro il lavoro nero e gli infortuni (nell’appaltistica telefonica le «morti bianche» infatti non mancano).
Si cerca una soluzione che, pur non respingendo a priori qualsiasi partner straniero, tenga però ben saldo nel nostro paese il controllo del gruppo, le sue finalità pubbliche, il patrimonio di tecnologia e lavoro: l’ideale per il sindacato sarebbe giungere a una «public company» – spiegava il segretario della Slc Cgil Emilio Miceli – con l’azionariato diffuso, ma si può (e realisticamente, forse, si dovrà) passare per una soluzione transitoria che veda prendere il controllo alle banche italiane. Se possibile, poi, non guasterebbe un partner industriale italiano, perché si sa, le banche fanno solo finanza (il segretario della Cgil Guglielmo Epifani ha evocato un «cavaliere bianco») e, perché no, in aggiunta a questi anche un partner europeo, che sottolinei il carattere transnazionale del gruppo. Ma no agli americani e ai messicani – «No al Tex-Mex», ha ribadito Epifani, prima ancora che la At&t annunciasse il suo ritiro – sono troppo lontani dall’Italia, troppo evidente il loro interesse a vendere per fini speculativi Tim Brasile, che invece riequilibra con i suoi lauti utili le difficoltà e il bisogno di risorse del ramo italiano. E sì, soprattutto, al mantenimento della Rete nel perimetro «Telecom», ma applicando come in Gran Bretagna l’Open Reach: board separato da quello Telecom, con membri nominati dall’azienda e altri dall’Authority per le comunicazioni, in modo da assicurare una gestione trasparente e indipendente che garantisca a tutti gli operatori uguale accesso.
Da Napoli a Bologna, i delegati intervenuti hanno sottolineato il servizio «pubblico», di public utility svolto dalla compagnia, un vero «tesoro» per l’Italia, che rischia di essere gettato alle ortiche grazie a «una privatizzazione che paghiamo adesso» e alla mania che tanti colossi delle utilities, da Enel a Hera, hanno di buttarsi su avventure finanziarie invece di dedicarsi alla loro missione. Miceli ha sottolineato che «nella proprietà manca una vera democrazia economica», che a fronte di 12 miliardi di utili l’anno si distribuiscono 22 miliardi di dividendi: l’«immoralità» sta nell’utilizzare le risorse per sfamare l’ingordigia dei grandi azionisti, invece di tornare a investire e ridurre i debiti (42 miliardi, da imputare soprattutto alle «scalate a debito»). E dire che negli ultimi 7 anni la produttività è aumentata del 66% e il margine operativo lordo del 43%: numeri inimmaginabili per altre aziende italiane, ma il nostro «capitalismo straccione» riesce a sperperare qualsiasi tesoro.
Paolo Pirani (Uil), ha ricordato come i dipendenti siano passati da 134 mila a 70 mila in poco piùdi un decennio. Raffaele Bonanni (Cisl) si è fatto portavoce di precise richieste: 1) incontrare al più presto l’azienda; 2) sia l’Authority che il governo devono convocare i lavoratori, perché da mesi i sindacati chiedono (a vuoto) un tavolo.
Epifani ha spiegato che la «vera modernità» non sta negli azionisti, riuniti a Milano, e che cercano solo il proprio tornaconto, ma «tra i lavoratori, che vogliono una soluzione per tutto il paese». E ha aggiunto: «evitiamo una nuova Alitalia: fino a 20 anni fa era la quinta compagnia del mondo».
Il ministro Gentiloni ha annunciato che entro due giorni si dovrebbe sapere di più sul ddl per lo scorporo Rete e maggiori poteri all’Authority. Il ministro Di Pietro, riprendendo l’intervento di Beppe Grillo a Milano, ha invocato una legge che tuteli i piccoli azionisti contro il gioco delle scatole cinesi.