I giudici e la libertà di espressione: gli ostacoli imposti dai decreti del centrodestra

Quando si parla di libertà di manifestazione del pensiero e di limiti alla libertà di critica, si pensa di solito ai magistrati come al braccio violento della legge, cioè – fuor di metafora – come ai censori dell’altrui libertà di critica. Ma c’è un altro modo in cui si può guardare al rapporto fra magistratura e libertà di manifestazione del pensiero, ed è quello che vede i magistrati come parte lesa e non come offensori.
Non alludo qui al profluvio di insulti che da oltre un decennio quotidianamente vengono riversati sulla magistratura italiana da editorialisti, uomini politici ed esponenti (talora purtroppo assai autorevoli) delle istituzioni; intendo piuttosto riferirmi ai limiti che, ad avviso di molti, la categoria dei giudici incontra nella libertà di manifestare il proprio pensiero. Questione che involge un complesso problema di bilanciamento degli interessi, scontrandosi, da un lato, un diritto di libertà che al magistrato dev’essere riconosciuto al pari di tutti gli altri cittadini e, dall’altro, il diritto di questi ultimi ad avere una magistratura imparziale, autonoma ed indipendente da ogni altro potere. E che da lunedì, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 109/2006, recante le nuove norme relative agli illeciti disciplinari dei giudici, rischia di comporsi in modo che la libertà del magistrato di manifestare il proprio pensiero venga compromessa oltre ogni ragionevolezza.

L’art. 3 del decreto, infatti, prevede che costituiscano illeciti disciplinari “fuori dall’esercizio delle funzioni” non solo “l’iscrizione o la partecipazione a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di centri politici” che possano “comunque compromettere l’immagine del magistrato”, ma altresì “l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è idoneo a turbare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste”, nonché “ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”. Tradotto, significa che se un magistrato, noto alle cronache perché magari ha arrestato qualche importante colletto bianco, rilascia un’intervista ad un importante quotidiano nazionale per dire che non condivide il tale o talaltro progetto di legge in discussione in Parlamento, si espone a procedimento disciplinare – e si espone, si badi bene, per il solo fatto di “parlare”, a prescindere cioè dal fatto che questo parlare costituisca manifestazione di un pensiero argomentato e strutturato o si palesi come la più immotivata e offensiva delle invettive. E significa anche che la stessa sorte incombe su un giudice che aderisca ad un’associazione come “Libera”, le cui finalità (nobilmente) politiche sono innegabili. Per non parlare di quanti dovessero avere ancora l’ardire di scrivere su testate giornalistiche politicamente connotate, come Liberazione o (per non far torto a nessuno) il Secolo d’Italia.

» bene rimarcare che non si sta parlando qui dell’obbligo del magistrato di essere (e apparire) imparziale quando svolge le sue funzioni: è fin troppo chiaro che quest’obbligo è indiscusso e indiscutibile – se il giudice non è terzo rispetto alla controversia che gli si agita davanti agli occhi, non è nemmeno giudice e ciò vale anche (benché spesso lo si dimentichi) per il pubblico ministero, che ha il compito di ricercare le prove anche a discarico dell’imputato e di chiederne il proscioglimento, qualora gli elementi raccolti non siano idonei a sostenere l’accusa in dibattimento. In discussione, al contrario, è l’obbligo del magistrato di astenersi dal manifestare le proprie opinioni anche al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni: è di questo che si parla quando si obbligano i magistrati ad “apparire imparziali”, oltre che ad esserlo. E che si tratti di una convinzione radicatissima nella nostra cultura lo dimostra il fatto che le critiche a Magistratura Democratica per avere invitato Sergio Cofferati e Pancho Pardi in occasione di un congresso nazionale sono venute da uno dei padri nobili del giornalismo liberale italiano, vale a dire Eugenio Scalfari.

Se affrontiamo il problema in una prospettiva storica, ci accorgiamo subito che il problema del bilanciamento degli interessi non riguarda solo i giudici.. Negli anni ’60, per esempio, era impensabile che un insegnante di una scuola pubblica criticasse l’autorità o partecipasse ad una manifestazione politica, in quanto era obbligato a tenere anche fuori della scuola una condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni, sotto pena di trasferimento per incompatibilità ambientale o, peggio, di procedimenti disciplinari.

Questa normativa, che era espressione di una più generale tendenza a ritenere che il pubblico impiegato e funzionario, essendo “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), dovesse essere imparziale e irreprensibile non solo nello svolgimento delle sue funzioni, ma anche nella sua vita privata, non era peraltro una peculiarità del settore pubblico. Anche nel settore privato i controlli sulla vita intima, privata, degli individui erano strettissimi. In una lettera alla cognata Tania, datata 20 ottobre 1930, Gramsci scrive: “Ford ha un corpo di ispettori che controllano la vita privata dei dipendenti e impongono loro il regime di vita, controllano anche i cibi, il letto, la cubatura delle stanze, le ore di riposo e anche le faccende più intime. Chi non si piega viene licenziato”. E ancora negli anni ’60, si poteva essere licenziati – come davvero accadde ad un operaio – solo perché si veniva scoperti dal datore di lavoro con due libri di Marx dentro lo zaino.

Benché talvolta lo si dimentichi, prassi del genere sono tipiche di una società totalitaria: una società che pretende di incorporare organicamente l’individuo, negandone ogni altra determinazione che non sia quella del ruolo che ricopre entro di sé, è una società totalitaria.

Fu a partire dalla seconda metà degli anni ’60, a prezzo di dure lotte sociali e durissimi sacrifici individuali, che questo disciplinamento cominciò ad essere scardinato. Che cominciò cioè a farsi strada l’idea che l’essere insegnante, l’essere impiegato, l’essere operaio non significava esaurire il proprio essere e che, di conseguenza, si era insegnanti, impiegati, operai e anche cittadini a cui l’art. 21 Cost. riconosce la libertà di manifestazione del pensiero. E fu allora che si riconobbe che si era l’una e l’altra cosa insieme anche nei luoghi di lavoro, perché i luoghi di lavoro sono una di quelle formazioni sociali entro le quali l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.

Questo processo di separazione dell’individuo dalla funzione ha riguardato anche i magistrati, che progressivamente hanno imparato a discutere pubblicamente e a rappresentare all’esterno valutazioni, richieste, suggerimenti, inserendosi così nel circuito della comunicazione democratica al pari degli altri cittadini e giungendo talora ad esternazioni perfino clamorose, come fu l’annuncio televisivo delle dimissioni del pool di Milano all’indomani dell’approvazione di un decreto legge che la stampa, in maggioranza, aveva definito “decreto salvaladri”.

C’è in questo un pericolo? Davvero, cioè, l’inserimento a pieno titolo nel circuito della comunicazione democratica può compromettere l’indipendenza o l’imparzialità del giudice? Ne dubito, e per un motivo molto semplice. » perfino ovvio, e l’ho già ricordato, che il magistrato ha l’obbligo di essere imparziale quando scrive una sentenza, un’ordinanza o una requisitoria. Imporgli, però, anche un obbligo di “apparire imparziale” al di fuori dell’esercizio delle funzioni potrebbe avere un senso solo qualora i magistrati non fossero tenuti a motivare tutti i loro provvedimenti, come stabilisce invece l’articolo 111 Cost.: in questo caso, effettivamente, si potrebbe sostenere che l’apparire imparziale sia l’unica garanzia per il cittadino di non sentirsi giudicato per le proprie convinzioni politiche invece che per i propri torti o ragioni. Ma in presenza di una norma costituzionale che impone la motivazione di tutti i provvedimenti, che impone cioè al giudice di esplicitare i motivi di fatto, logici e giuridici, che lo hanno indotto a determinarsi in un modo piuttosto che in un altro, perché gravare il magistrato anche dell’obbligo di “apparire indipendente”? Un obbligo che dimentica, in specie, che i più corrotti tra i magistrati sono sempre stati trovati tra coloro che non manifestavano pubblicamente le proprie opinioni? Paradossalmente, mi verrebbe voglia di sostenere il contrario. Il fatto, cioè, che le sue opinioni politiche siano conosciute potrebbe essere di maggior stimolo al giudice che voglia evitare accuse di parzialità per curare particolarmente lo studio, l’aggiornamento e il rigore argomentativo. Che sono le uniche cose che si dovrebbero pretendere dai giudici e sulle quali, invece, talora ci sarebbe davvero di che discutere.

Il vero problema è che, dietro la querelle sull’essere o apparire imparziale del giudice, c’è il dato preoccupante che poche persone capiscono di diritto. Basta vedere un qualunque dibattito televisivo: gli anchormen sono prontissimi a organizzare trasmissioni sul processo a Tizio o sulla sentenza riguardante Caio, ma guai a discuterne il merito: sarebbe un “tecnicismo” che farebbe abbassare l’audience. Meglio dunque avere un giudice che appaia imparziale, piuttosto che assumersi l’onere di spiegare che le opinioni politiche di quel giudice non c’entrano nulla con la sua decisione.

Insomma, siccome il popolo non capisce di diritto, meglio non fargli sospettare di essere stato giudicato da un giudice “politicizzato”. Per motivi analoghi, i partiti stalinisti reprimevano la pubblicità del dibattito interno: il proletariato – si diceva – “non è maturo per reggere la spaccatura del partito”. Che un esito del genere possa rappresentare un adeguato bilanciamento di quegli interessi di cui si diceva in apertura, però, è oltremodo discutibile: la libertà di manifestazione del pensiero è un bene troppo prezioso per essere sacrificato sull’altare di una sorta di “diritto all’ignoranza” delle masse.

O no?