I giovani oggi stanno peggio di 30 anni fa

Gabriella Berloffa ha condotto per l’Università di Trento una ricerca sulla povertà e la ricchezza nel mondo e in Italia. Le conclusioni sono abbastanza inquietanti: il 5% più ricco della popolazione mondiale controlla un terzo del reddito mondiale e in due giorni genera un reddito pari a quello che il 5% più povero genera in un anno. E’ anche grazie a questi numeri se oggi l’emergere della Cina si presenta per i paesi occidentali più come dramma che come opportunità. Un fenomeno, però, accomuna i paesi in via di sviluppo e quelli industrializzati: la disuguaglianza al loro interno. Questo vuol dire che, se da una parte diminuisce il valore assoluto dei poveri nel mondo, dall’altra aumenta il numero di paesi in cui si manifesta il fenomeno della povertà relativa.

Qual è la sintesi dello studio per ciò che riguarda l’Italia?

C’è una difficoltà di crescita dei redditi dei lavoratori dipendenti, operai in particolare, e una maggior dinamica dei redditi di lavoratori autonomi e pensionati. Questa configurazione genera alcune riflessioni, a partire da quella che dobbiamo abituarci a pensare in termini di lavoro autonomo, ovvero diventare imprenditori di noi stessi, mettendo a frutto le capacità creative che abbiamo e, dall’altro, dobbiamo affrontare il problema della distribuzione del reddito tra le generazioni perché questo nodo dei giovani è un tema molto difficile. Ci sono degli interessi forti della generazione nata negli anni tra il ’30 e il ’40 che si è costruita una posizione grazie anche a un indebitamento pubblico elevato, e c’è una generazione di giovani che oggi si trova a dover sopportare sulle spalle un forte debito e condizioni iniziali decisamente difformi. Le prospettive dei trentenni di adesso sono sicuramente diverse da quelle di trenta anni fa perché da una parte non c’è la possibilità di ricorrere al debito pubblico e dall’altra le condizioni della globalizzazione impongono delle prospettive di crescita diverse.

C’è il rischio di cancellare una generazione?

Di farle portare dei pesi elevati.

Imprenditori di se stessi è la storiella che ci hanno raccontato in questi anni. Non crede che un imprenditore di se stesso non nasce a caso e che ha bisogno di un investimento sociale?

Sicuramente è il risultato di un investimento sociale non solo come offerta di servizi pubblici ma anche come coscienza di se stessi. Voler convincere i giovani che non ci sono prospettive alla fine ha un effetto deleterio sulla loro capacità di mettere a frutto le potenzialità che hanno e, dall’altra parte, volerli convincere che l’unica cosa che vale è il posto sicuro è altrettanto deleterio. Servono investimenti per avere università di qualità che implichino un pluralismo di soggetti che li offrano.

In questa sorta di lotta di classe sotterranea chi ci ha guadagnato. Non c’è stato un predominio della rendita?

Certamente. Ho fatto una analisi per coorti di individui. Chi ha goduto dello sviluppo economico degli anni sessanta sono stati quelli che sono nati negli anni ’30 e ’40. Chi ha sopportato il peso maggiore della non-crescita degli anni ’90 sono stati quelli nati negli anni ’60 che in termini reali si ritrovano ad avere meno dei trentenni di 30 anni fa, al netto dei servizi abitativi.

Lei nella sua relazione ha parlato di bene pubblico. Come si concilia con l’ideologia dell’imprenditore di se stesso?

Non credo che essere imprenditori di se stessi implichi una non considerazione del bene comune. Più cresce la responsabilità di ciascuno di mettere a frutto le proprie capacità e più si incrementa il bene comune. Naturalmente, va favorita tra i giovani la crescita della coscienza del nesso tra le due cose.