I giorni di una vita tra le macerie

Giorno 1 – lunedì (14 agosto) primo giorno di cessate il fuoco (cessazione delle ostilità dicono… ma sanno davvero cosa vuol dire?). Un giorno in cui abbiamo preferito non muoverci troppo.
Giorno 2 – martedì, giorno di festa della vergine, un giorno di congedo in tutto il paese, un giorno in cui abbiamo preferito essere ancora prudenti.
Giorno 3 – mercoledì, grande giorno di «ritorno», ritorno alla vita normale.
Dopo il conto alla rovescia per la fine della guerra, ecco un nuovo conto per l’inizio della pace. Gli sfollati del sud, comunque, non hanno atteso il giorno 3, ma hanno approfittato del primo momento di tregua per tornare a casa. Sono loro gli ultimi che, questo mercoledì mattina, hanno lasciato le scuole e gli stabilimenti di stato dove hanno abitato per tutto il mese della guerra. E anche durante questi tempi di guerra non si perde mai il senso dell’umorismo! Le barzellette che circolano ruotano spesso intorno al fatto di «abitare a scuola», come quella di un idillio d’amore in cui il giovane chiede alla sua dolce innamorata dove abita e lei risponde alla «classe 9 sezione A»!
Era solo il giorno 3 quando, come tutti, ho deciso di tornare a Beirut per «visitare» la casa… come si dice in tempi di guerra. È stato un giorno di grande emozione, di gioia, di tristezza, ma sopratutto di dubbi e di paure, dell’oggi e del domani.

Dov’è il Libano?
Per orientarsi un po’ nella geografia del Libano: il Libano è un rettangolo lungo che si estende in mezzo alla costa est del Mediterraneo … in un certo senso è l’ombelico del vecchio mondo (questo spiega «l’ombellichismo» dei bibanesi!) un paese tra l’est e l’ovest, l’oriente e l’occidente, i cristiani e i musulmani, il mare e la montagna, le terre fertili e il deserto… Un rettangolo di 200 chilometri di costa di fronte al blu del Mediterraneo, con una profondità di 50 chilometri…un paese piccolo che riesce a creare tante «onde». Non è la sua grandezza che conta, ma la diversità del paesaggio, della geografia, delle appartenenze, delle religioni, delle confessioni, delle tradizioni… un mélange, una diversità come non si trova da nessun altra parte e che fa la richezza e la fortuna del paese, ma spesso anche il suo malessere. L’ultimo è stato quello di una guerra di nuovo genere, nel senso che per una volta non sono state due fazioni diverse del paese che si uccidevano a vicenda, ma quasi il paese intero contro un altro. E dire che tutto accade sempre in uno scenario di guerra… non si cambia mai! Come al solito, non si è saputo come e perché la guerra sia iniziata e non abbiamo mai saputo soprattutto come e perché si sia conclusa. Ed è proprio questo che rende questa pace, questa parvenza di pace, così fragile e friabile. Alle fine di un mese di massacri, raid aerei (della peggiore specie), blocchi, ponti e strade bombardati e distrutti ci si ritrova a zero, a meno di zero, e si deve ricominciare tutto daccapo. Come se tutto ciò che ci è permesso di fare è solo subire. Se si deve subire la guerra, spesso la pace è anch’essa difficile da subire. Non vi stupite … spero che non dobbiate mai vivere questa scelta, ma ve lo spiego.

Vivere in tempo di guerra
In tempi di guerra, niente ha più significato, è continuamente e solo una storia di vita o di morte. La posta in gioco è alta e indiscutibile. L’adrenalina è al massimo. E quando i giorni peggiori passano e ci si ritrova vivi, occorre affrontare nuovi problemi. Se si è sani e salvi, o meno. Se ci sono state perdite tra i parenti, o meno. Se ci sono state perdite materiali, case, uffici, fabbriche, o meno. Se si ha sempre un lavoro dal proprio padrone, o meno. E se il lavoro c’è ancora, il problema è se viene ancora pagato. Se si era frustrati da tutto quello che si subiva durante la guerra, lo si è ancora di più nei primi giorni della pace quando vanno prese le grandi decisioni. Arrivano i bei giorni della depressione e dell’indecisione. Perché una guerra è anche una grande sfida: restare o partire, lavorare o stare a casa, andare avanti o restare paralizzati?
In quest’ultima guerra molti sono partiti. Dai tempi antichi, il Libano è conosciuto come un paese di emigrazione. Ogni volta che sorge un problema, si fanno i bagagli e si parte. Oggi ci sono quasi 5 milioni di libanesi in Libano… e 15 milioni in giro per il mondo.
Per mantenere l’umorismo (nero questa volta) una nuova bandiera libanese è stata disegnata come caricatura; la bandiera, quella vera, si divide in tre strisce orizzontali, due strisce rosse ai lati e una bianca in mezzo, dove si trova il cedro verde, emblema del paese. Nella caricatura si vede una valigia al posto del cedro, come se fosse il nuovo emblema di questi giorni. Non si può biasimare la gente che è partita, e mi chiedo sempre se sia la scelta giusta da fare o meno. Spesso, il prezzo della guerra è caro da pagare, e non ci sono solo gli sfollati, i feriti, e le vittime dirette che pagano il prezzo, ma tutti.
Al «giorno 3» della pace, si vedono le file interminabili di persone che «rientrano» e le macchine piene di persone e si capisce cosa ha rappresentato «la loro casa» per un mese intero: i materassi ammucchiati sul tetto della macchina, i bagagliai spalancati, pieni zeppi di coperte, di cose personali, e del ventilatore e della tv per quelli più fortunati. Perché andando via di fretta ci si chiede sempre cosa si debba prendere e cosa lasciare, un’esitazione terribile, e alla fine non si porta via quasi niente. Ma ci sono anche molti altri che hanno tentato di rifarsi una vita, e che hanno perso tutto. Ci sono anche quelli che sono rimasti a casa loro, che non hanno scelto le scuole come casa, che non hanno perso un fratello o una sorella, quelli che in apparenza non sono stati toccati dalla guerra. Ma di fatto questa guerra è stata devastante per tutti quanti.

I sapori perduti
Quando penso a Fadi e al suo progetto della valle di Adone – la mitica valle in cui sono nati gli amori di Venere e Adone – un progetto di produzione di salsa di pomodori e di pomodori secchi biologici, che ha perso tutta la sua produzione dell’anno in un solo mese di guerra e che ora si trova costretto a fare i bilanci… Quando penso a Nelli, che aveva lasciato la sua comoda vita di Beirut per trasferirsi in una fattoria al sud del Libano e produrre le antiche varietà della regione (tra l’altro, il secondo giorno del conflitto aveva saputo che uno dei suoi prodotti era stato nominato al «presidio» dalla fondazione Slow Food per la biodiversità)… Quando penso al mio progetto, al souk el tayeb, il primo mercato agricolo del Libano – che in due anni è diventato il punto di riferimento dei piccoli produttori, e dei prodotti di qualità, il primo di altri tre mercati a Byblos, Batroun e Tripoli (el Mina) – e che tutto questo è sprofondato…
Quando penso a tutti gli altri che provavano a costruire una vita semplice, corretta e decente, e che tutto sprofonda, non si può che essere depressi, amare ancora e domandarsi: chi ha vinto, chi ha perso? Tutto quel che resta da fare è provare a recuperare il tempo, gli sforzi e le pene perdute. In questo mercoledì di «ritorno», attraversando il ponte si notavano delle grandi silhouettes e si riusciva appena a indovinare di cosa si trattasse. Guardando da più vicino si vedevano le gru al lavoro, e non si poteva che asciugarsi le lacrime. Apena un giorno di tregua ed ecco che i lavori hanno ripreso! Ricominciare, ricostruire… rivivere, non so se sia una facoltà straordinaria propria dei libanesi, o semplicemente il fatto che non abbiamo scelta.
Ed ecco un altro lunedì, una settimana dopo il famoso lunedì del cessate il fuoco. Giorno 7, 14, 21… e ci si trova a contare i giorni alla «Madame Bovary». Ma se i ricordi di quest’ultima svanivano con il tempo, per noi non è così: le tracce di guerra, morte, distruzione, ferite, perdite, si aggravano di giorno in giorno e fanno del dopoguerra giorni davvero difficili.

(traduzione di Lea Ypi)