Nel gran discutere che si fa sul raider Ricucci e sulla corsa all’acquisto del Corriere della Sera vien fuori che per la democrazia italiana un giornale è come una fabbrica di biscotti o di lamette da barba, cioè come un’organizzazione produttiva di cose, di oggetti che non ha una sua funzione politica, un suo ruolo culturale e sociale. Vien fuori che si riconoscono ai padroni, ai proprietari, diritti assolutamente prevalenti su coloro che i giornali li fanno, li scrivono, e sulla loro storia, che non può essere capovolta da un passaggio di proprietà. La riduzione di tutto al capitale, alla proprietà, è una prepotenza che la democrazia ha accettato senza nessuna possibile difesa.
Mi è capitato nel corso della carriera di giornalista di subire alcune di queste violenze totali e brutali. Ero al Giorno, il quotidiano fondato da Enrico Mattei, di sinistra, anticolonialista, fiancheggiatore delle lotte sociali, antifascista. E da un giorno all’altro mi ritrovo nel Giorno doroteo di Girotti. Un nuovo padrone, un nuovo direttore e il suo consiglio autorevole di «tagliare le unghie», di smetterla con le critiche e le polemiche sgradite al nuovo proprietario. Come risposta alle proteste il solito richiamo alla sacra proprietà: il padrone ha il diritto di scegliere la linea politica e il direttore che gli piacciono.
È un diritto che I soldi rendono indiscutibile? È lecito che un giornale socialista per mezzo secolo e più diventi improvvisamente fascista senza cambiare la testata, usando per la nuova e diversa funzione politica anche la ricchezza culturale, di mestiere, di tradizione raccolta precedentemente? Nella democrazia borghese non si conosce altra via che l’assoluta prevalenza del capitale: il padrone è quello che possiede la maggioranza delle azioni e i suoi dipendenti da lui devono dipendere. Se gli va la nuova minestra, bene; se no, saltino dalla finestra.
Questa è la regola, ma è una regola barbara. Se un giornale scontenta i suoi lettori e i suoi clienti pubblicitari, se perde copie e aumenta il deficit, fallisca come le aziende che non reggono il mercato. Ma che un giornale ricco di copie, di pubblicità, di prestigio, sia costretto a passare di mano perché è comparso un avventuriero che, con i soldi non si sa bene di chi, fa incetta di azioni per imporre un acquisto, non sembra la soluzione più civile. Il capitalismo, padre della democrazia borghese, è questa cosa qui e non si è ancora trovato nulla di meglio. Ma forse questo moltiplicarsi di Opa, di stock options, di aumenti di capitale, di falsi in bilancio, questa illegalità di fatto non è più una democrazia accettabile.