I filosofi della ricca Cina e il fantasma di Marx

Mentre sappiamo quasi tutto del boom economico cinese, disponiamo di un’informazione molto più limitata su quello che succede negli ambienti della cultura, delle università, della ricerca. Di cosa si discute nelle università della nuova Cina? C’è un dibattito politico e quali ne sono i termini? Di recente mi è capitata l’occasione per farmi qualche idea in proposito. Mi è accaduto infatti di partecipare, insieme ai colleghi francesi della rivista parigina Actuel-Marx, a un convegno organizzato dalla Fudan University di Shangai, uno dei più prestigiosi atenei cinesi. Il tema di discussione era il marxismo nel nostro tempo.
Arrivando a Shangai, si rimane immediatamente scioccati dalla enormità dei contrasti che questa città ci squaderna davanti. Di Shangai oggi ce ne sono almeno tre. C’è quella contrassegnata ancora dalle vestigia del passato coloniale: sul Bund, la grande arteria che costeggia il fiume Huangpu, si stagliano gli imponenti edifici primo Novecento che ricordano il dominio che soprattutto gli inglesi e i francesi esercitarono su questo importantissimo porto dell’estremo oriente. Il ricordo del colonialismo, peraltro, viene mantenuto ben vivo: le umiliazioni subìte dalla popolazione locale sotto il dominio coloniale sono rievocate nel museo storico della città, che ricostruisce, con dei plastici un po’ disneyani, le misere condizioni del popolo all’epoca delle Concessioni europee. Tutto intorno, però, cresce a ritmi spaventosamente rapidi la nuova Shangai dello sviluppo accelerato capitalistico e immobiliare: grattacieli e torri straordinariamente ardite e dalle forme originali e bizzarre sorgono in ogni dove. La notte, lo spettacolo di questo sterminato agglomerato urbano ipermoderno, tutto luci e colori, lascia il visitatore a bocca aperta: siamo a mezza strada tra New York e Las Vegas. La cosa scioccante, però, è che a volte basta attraversare una strada, fare poche decine di metri, e si è come precipitati in un altro mondo, o meglio in un altro tempo, e ti ritrovi in mezzo ai vicoli mal illuminati di una città molto più antica; dove, tra costruzioni basse e oggi fatiscenti (ma che un tempo devono avere avuto una loro bellezza) la strada diventa teatro di piccoli commerci di carni, pesci, alcolici da pochi centesimi, e le case assomigliano un po’ ai bassi napoletani come potevano essere cent’anni fa. Da queste parti verso sera si incontrano a gruppi i lavoratori dell’edilizia che tornano a casa: tuta blu ed elmetto giallo sul capo, sono la presenza visibile della nuova classe operaia che cresce insieme all’impetuoso sviluppo capitalistico.
La Fudan University, dove si svolge il nostro convegno, è un immenso campus che si trova all’interno del vastissimo agglomerato urbano di Shangai, a una decina di chilometri dal centro. La prima cosa che mi colpisce, qui, è quanto poco assomigli a un’università italiana, e a Roma in particolare: al centro del campus due alte torri in cemento e acciaio (tanto per cambiare), dominano i viali alberati, percorsi da studenti in bicicletta che si spostano tra le varie aule di lezione: ordine e pulizia regnano sovrani. Il reprobo fumatore (come il sottoscritto) si vergogna persino a gettare una cicca per terra; ma non c’è problema, tanto il numeroso personale di pulizia provvede subito a rimuovere le tracce del comportamento vizioso. Per un giovane, entrare in un’università come questa, ci spiegano, non è affatto facile, perché è una delle più quotate del paese: vi è una forte competizione per essere ammessi, dato che i numeri sono limitati, e i costi delle rette sono, in rapporto al reddito, piuttosto alti e quasi proibitivi per studenti che provengano dalla vasta Cina rurale. A un occhio europeo, l’organizzazione dell’Università appare fortemente gerarchizzata e tradizionale: i professori godono di un rispetto che nell’occidente democratico è tramontato da molto tempo, il loro status sociale sembra superiore a quello dei colleghi europei, e la gerarchia accademica è ben salda.
Tra i molti dipartimenti, l’Università ospita anche un centro per lo studio del marxismo all’estero; ed è proprio questo che, oltre ad avere invitato in passato importanti studiosi europei (come Habermas e Derrida), ha organizzato la discussione sul marxismo alla quale ci troviamo a partecipare. La curiosità di noi europei è innanzitutto quella di capire cosa significhi, per degli intellettuali cinesi, dirsi marxisti oggi; ma speriamo anche di riuscire a trascinarli in un discorso sulla situazione politica della Cina contemporanea, sugli umori che circolano tra la popolazione e tra gli accademici.
Per quanto riguarda il marxismo, la situazione nella Cina di oggi si presenta press’a poco così: sebbene il paese sia trionfalmente avviato verso la modernizzazione capitalistica, il marxismo è ancora la dottrina ufficiale del regime. Agli studenti delle scuole superiori, e anche a quelli che frequentano le varie facoltà universitarie, tocca sorbirsi un po’ di ore di insegnamento obbligatorio della dottrina marxista. E, ci dicono i nostri interlocutori, si tratta appunto di una dottrina, di una specie di catechismo simile a quello che si insegnava in Unione Sovietica, che viene subìto e sopportato con indifferenza da giovani ai quali non importa nulla delle tre leggi della dialettica e di altre assurdità alle quali il pensiero del povero Marx viene ridotto. A un livello più alto, il marxismo si insegna nei dipartimenti di filosofia. E la filosofia, ci spiegano, nella comunità accademica cinese è compartimentata in tre settori ben distinti l’uno dall’altro: la filosofia marxista (che, per il suo essere spesso ridotta a ideologia di legittimazione, è quella che gode di minor prestigio), la filosofia occidentale (dove si studiano, come da noi, i grandi autori classici e contemporanei, da Kant al molto apprezzato Heidegger) e infine la filosofia cinese tradizionale.
Il punto di vista che accomuna i partecipanti cinesi al nostro convegno (che provengono non solo da Shangai, ma anche da Pechino e da altre università) va decisamente controcorrente rispetto al modo scolastico di studiare e interpretare il marxismo. Per chi viene dall’Europa, il primo impatto è piuttosto spiazzante. Per un verso è bello apprendere che, in un mondo sociale e culturale lontanissimo da quello a cui siamo abituati, ci sono intellettuali che, contrastando le vecchie e sclerotiche orotodossie, si rapportano al marxismo come a una filosofia critica e umanistica, e valorizzano, della tradizione marxista, proprio quei momenti dove l’eccedenza e lo scarto rispetto ai canoni consolidati è più forte: i riferimenti più frequenti sono a Ernst Bloch, a Jean Paul Sartre, a Herbert Marcuse; e, andando al di là dall’orizzonte marxista, c’è molto interesse anche per pensatori contemporanei come Rawls e Habermas. Lo spiazzamento però sta anche nella difficoltà, per noi europei, di capire cosa significhi realmente il riferimento al marxismo critico nella Cina di oggi: quale messaggio vuole lanciare, quale incidenza può avere (se ne ha una) nel dibattito politico esterno e interno al partito comunista. Per inciso: tra professori e studenti alcuni sono iscritti al partito comunista, ma questo, da quello che si riesce a capire, non ha una vita democratica interna: funziona secondo un principio gerarchico, per cui dall’alto arrivano indicazioni e parole d’ordine e poi la base si deve attivare per metterle in pratica.
Dalla discussione filosofica, comunque, si passa fatalmente ai temi più direttamente politici. Come interpretare il singolare paradosso storico che sta prendendo corpo, quello di un paese in buona parte capitalista governato da un partito unico comunista? Se c’è in Cina un’intellighenzia critica, e non pare dubbio che ci sia, come si rapporta alla svolta presente? E che tipo di memoria storica si viene formando nella Cina di oggi rispetto a snodi decisivi del passato, come il ruolo di Mao o quello della rivoluzione culturale? Su un punto tutti sono d’accordo: l’apertura al mercato e al capitalismo era necessaria per avviare un percorso di uscita dall’arretratezza e di ricollocazione della Cina come grande potenza economica e politica sullo scacchiere mondiale. Il problema quindi non è se aprire al capitalismo ma come. A proposito del come, sono molti i problemi che discutendo con intellettuali e gente comune vengono fuori: lo sviluppo porta con sé non solo grandi ineguaglianze, ma anche un aumento dei prezzi che mette in difficoltà la gran parte della popolazione, il cui reddito è tuttora assai limitato. Soprattutto, quello che la gente rifiuta è la tendenza a ridurre le garanzie sociali, che bene o male il vecchio sistema comportava. Non solo: una constatazione diffusa è che il nuovo capitalismo che sta prendendo piede non ha molto a che vedere con il principio liberale di un mercato aperto e caratterizzato da pari opportunità: anzi, sono molto diffusi i fenomeni di corruzione e di intrecci perversi tra politica, affari e arricchimenti personali. Insomma, un mercato e un capitalismo ideali esistono in Cina tanto poco quanto in Italia.
Altrettanto se non più complicata è la questione del governo politico di questo sviluppo che, dopo la repressione del movimento democratico di Tien an Men, è saldamente in mano al partito unico. Su questo tema emergono, nelle conversazioni molto libere che si tengono nell’università (dove talvolta i nostri interlocutori finiscono per accalorarsi in cinese, tagliando fuori gli europei) due preoccupazioni fondamentali, in tensione tra loro. Da un lato l’esigenza della stabilità, di una trasformazione governata che non produca la disgregazione politica del paese; e l’unico garante della stabilità è in questo momento il Partito comunista. D’altra parte, si obietta, lo sviluppo del mercato e del capitalismo ha introdotto ormai nella società cinese delle forti differenziazioni di classe, una netta contrapposizione di interessi: la politica non può soffocare questo conflitto, ma deve trovare il modo di rappresentarlo. Può farlo il partito unico o invece è necessario quantomeno affiancare ad esso delle organizzazioni plurali, che diano voce ai vari interessi e alle diverse classi? Quale pluralismo è compatibile con la stabilità politica e il progresso economico del gigante cinese?
Una notazione, infine, sulla memoria storica: in un paese dove ha trionfato la linea denghista modernizzatrice, Mao e le sue scelte politiche (soprattutto la rivoluzione culturale del 1966) non possono essere più santificati. C’è chi si spinge a sostenere francamente che Mao aveva sbagliato tutto; per chi è più cauto, sembra che il riferimento al Grande Timoniere conservi soprattutto un valore patriottico: è stato un padre della patria, ma di suoi ritratti in giro se ne vedono sempre meno. La sua effigie campeggia ancora solo sulle borse di tela e le t-shirt che i turisti europei si riportano a casa, souvenir un po’ nostalgici di un comunismo che fu.